REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta - Presidente -
Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere -
Dott. TATANGELO Augusto - Consigliere -
Dott. PORRECA Paolo - Consigliere -
Dott. D’OVIDIO Paola - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso 2571/2016 proposto da:
SENTENZA
D.L.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MAGNAGRECIA 13, presso il suo studio, rappresentato e
difeso da se medesimo;
- ricorrente -
contro
GENERALI ITALIA SPA, in persona dei procuratori speciali, Dott. C.P. e Dott. P.V., elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA G. PAISIELLO 40, presso lo studio dell'avvocato DAVID MORGANTI, che la rappresenta e
difende giusta procura in calce al controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 935/2015 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 10/02/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/01/2018 dal Consigliere Dott. PAOLA
D'OVIDIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SOLDI Anna Maria, che ha concluso per il
rigetto del ricorso;
udito l'Avvocato D.L.S.;
udito l'Avvocato DAVID MORGANTI.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato in data 15/1/2001 D.L.S. citava dinanzi al Tribunale di Roma la s.p.a.
Assicurazioni Generali per sentirla condannare a rifondergli le spese mediche sostenute in occasione
dell'intervento chirurgico subito in data (OMISSIS), previa declaratoria della natura vessatoria della
clausola contrattuale di cui al punto 5.3 delle condizioni generali di assicurazione relative alla polizza
sanitaria stipulata tra le parti con decorrenza dal 10/6/1997, avente efficacia quinquennale, con
pagamento dei premi a cadenza semestrale.
Deduceva l'attore che la compagnia di assicurazioni convenuta, richiesta di procedere al relativo rimborso,
aveva opposto l'insussistenza della copertura assicurativa in quanto la rata di premio, scaduta il
10/6/1999, era stata pagata solo in data 23/9/1999, e quindi l'evento (ricovero del 18/10/1999,
protrattosi sino al 23/10/1999) era avvenuto prima che fosse decorso il termine di aspettativa di 30 giorni
dal pagamento della rata, previsto dal combinato disposto delle clausole 5.3 e 4.4 per il caso in cui il
pagamento sia stato effettuato, come nella specie, con un ritardo superiore a 90 giorni.
La clausola invocata dalla compagnia di assicurazioni, ad avviso dell'attore, era di tenore del tutto
ambiguo, sicchè doveva applicarsi l'art. 1901 c.c. e, conseguentemente, essendosi l'evento verificato dopo
il pagamento, seppure tardivo, della rata scaduta nel giugno del 1999, la convenuta era tenuta a
provvedere alla liquidazione del relativo indennizzo.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 9166 del 2006, rigettava le domande e condannava l'attore alla
refusione delle spese di lite, ritenendo la chiarezza ed univocità della clausola 5.3 delle condizioni generali
di assicurazione, ai sensi della quale, in presenza di un ritardo nel pagamento della rata superiore a 90
giorni, la copertura assicurativa ritornava ad essere efficace soltanto dopo il trascorrere dei termini di
aspettativa di cui alla precedente clausola 4.4, che nell'ipotesi oggetto di causa era pari a 30 giorni.
Quanto alla contestata efficacia di tale clausola il Tribunale, dopo aver affermato che la stessa riguardava
l'oggetto del contratto, escludeva che potesse essere ritenuta vessatoria ai sensi dell'art. 1469 ter c.c. sia
sotto il profilo del comma 2, attesa la chiarezza della sua formulazione, sia ai sensi del comma 3, in
quanto la disposizione rispondeva ai criteri di cui all'art. 1901 c.c..
Avverso tale sentenza proponeva appello il D.L. deducendo, tra l'altro, che le clausole contenute nelle
condizioni generali, oltre a non essere state specificamente approvate per iscritto ai sensi degli artt. 1341
e 1342 c.c., dovevano ritenersi illegittime e vessatorie in quanto determinanti un grave squilibrio nella
posizione contrattuale dell'assicurato, obbligato al pagamento del premio, mentre la prestazione della
compagnia assicuratrice era efficace solo dopo il decorso del termine di 30 giorni.
Con sentenza n. 935 del 2015, pubblicata il 10/2/2015, la Corte di appello di Roma respingeva il gravame,
ritenendo corretta la qualificazione del primo giudice, peraltro non specificamente censurata
dall'appellante, secondo la quale la clausola in oggetto riguardava non già limiti di responsabilità della
compagnia di assicurazioni, bensì l'oggetto del contratto, attenendo ai contenuti ed ai limiti della garanzia
assicurativa. Di qui il giudice del gravame traeva due conseguenze quanto all'efficacia della clausola: - in
primo luogo non era necessaria la sua specifica approvazione per iscritto, non rientrando la detta clausola
tra quelle previste dall'art. 1341 c.c.; - in secondo luogo, doveva escludersi la sua natura vessatoria ai
sensi dell'art. 1469 ter c.c., stante la ritenuta chiarezza del tenore testuale della medesima clausola.
Avverso tale decisione propone ricorso il D.L. sulla base di due motivi.
Resiste in giudizio la Generali Assicurazioni s.p.a. con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per la "violazione e falsa applicazione
dell'art. 35 Cod. Cons. ovvero art. 1469 ter-quinqes c.c. con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3".
Sostiene in proposito il D.L. che la clausola 5.3 delle condizioni generali di contratto oggetto di causa
sarebbe ambigua e vessatoria in quanto porrebbe in essere "quell'efficacissimo, subdolo, sleale, malizioso
imbroglio realizzato utilizzando la specifica disciplina psicologica detta Tecnica Subliminale che ha sempre
funzionato".
Il tenore della clausola in discorso è il seguente: "1. Fermi i termini di aspettativa di cui all'art. 4.4,
l'assicurazione ha effetto dalle ore 24 del giorno indicato in polizza se il premio o la prima rata è stato
pagato, altrimenti ha effetto dalle ore 24 del giorno del pagamento. 2. Se il contraente non paga i premi o
le rate di premio successivi, l'assicurazione resta sospesa dalle ore 24 del quindicesimo giorno dopo quello
della scadenza, per riprendere vigore dalle ore 24 del giorno del pagamento, ferme le successive
scadenze. 3. Nel caso in cui il pagamento del premio venga effettuato con un ritardo superiore a 90 giorni,
i termini di aspettativa di cui all'art. 4.4 saranno computati dalle ore 24 del giorno in cui si effettua il
pagamento".
L'art. 4.4 (intitolato "Termini di Aspettativa", richiamato nella clausola 5.5., a sua volta prevede, alla
lettera b), che "l'assicurazione decorre dalle 24.00 del 30^ giorno successivo a quello di effetto della
polizza per le malattie...".
Ad avviso del ricorrente la clausola 5.5., essendo composta da tre commi tutti caratterizzati dalle
medesime parole conclusive ("... dalle ore 24 del giorno del pagamento") e volti a regolare la decorrenza
degli effetti della polizza dopo il pagamento del premio, ovvero la riattivazione della polizza stessa in caso
di ritardo nel pagamento dei premi successivi al primo, indurrebbe a ritenere che la disciplina sia sempre
identica in tutti e tre i casi, ossia che la copertura assicurativa operi dalle ore 24 del giorno stesso del
pagamento del premio o della prima rata, ovvero dei premi o delle rate di premio successivi. Tale è,
invero, la previsione dei primi due commi, ma il terzo comma, come può evincersi dalla lettura della
disposizione, stabilisce invece che, in caso di ritardo superiore a novanta giorni, debbano decorrere i
termini di aspettativa di cui alla precedente clausola 4.4 (stabiliti in trenta giorni), aggiungendo che gli
stessi devono essere computati "dalle ore 24 del giorno in cui si effettua il pagamento".
1.1. Il motivo è inammissibile per plurime ragioni.
Invero, il ricorrente si è limitato a riproporre le argomentazioni già espresse negli atti difensivi dei giudizi
di merito, lamentando quanto già dedotto circa la ambiguità e conseguente vessatorietà della clausola
perchè la stessa utilizzerebbe nel terzo comma una espressione "già ampiamente ed irreversibilmente
registrata nel subconscio" (".. dalle ore 24..."), ad essa anteponendo un rinvio ai termini di cui alla
clausola 4.4 che, ad avviso del ricorrente, sarebbe fuorviante in quanto "regolarmente ignorato dal lettore,
il quale, dopo il ripetitivo e ricorrente "ore 24 del giorno in cui si effettua il pagamento", crede di sapere
già tutto".
Nel motivo, tuttavia, non vi è alcun riferimento al contenuto della sentenza impugnata che, in proposito,
dopo aver dato conto delle doglianze dell'appellante avverso la decisione di primo grado (laddove aveva
ravvisato i caratteri della chiarezza nella clausola in discorso) e dopo aver riportato testualmente sia la
clausola 5.3 che la clausola 4.4, giunge a ritenere il tenore di dette clausole "di facile lettura ed agevole
comprensione per qualsiasi soggetto anche non provvisto di particolari doti intellettive o specifiche
competenze, certo non ostacolata dalla diversa disciplina prevista nell'ipotesi di ritardo nel pagamento del
premio inferiore a 90 giorni....". Nella motivazione della sentenza impugnata si aggiunge altresì che
"appare oggettivamente insostenibile, alla luce della chiarezza del dato testuale, la possibilità di
interpretare la clausola nel senso di ritenere che, indipendentemente dalla durata del ritardo, la copertura
assicurativa sarebbe comunque ripresa alle ore 24 del giorno del pagamento, nè il concreto
comportamento dell'odierno appellante - secondo il quale l'intervento al quale si era sottoposto, non
essendo urgente, avrebbe potuto essere differito ad una data successiva al 23 ottobre - può condurre a
ravvisare nella specie una inesistente oggettiva oscurità della norma pattizia".
A fronte di tale motivazione il motivo di ricorso in esame, come rilevato anche dalla società
controricorrente, non propone alcuna critica al percorso argomentativo seguito nella sentenza impugnata,
nè, soprattutto, specifica in quale parte e per quali ragioni sarebbero stati violati gli artt. 1469 terquinques
c.c. (applicabili ratione temporis, risultando pertanto improprio il riferimento anche al D.Lgs. n.
206 del 2005, art. 35, che ha sostituito la previgente disciplina), così che è rimasto non identificato il
collegamento logico tra le ragioni di censura rivolte nei confronti della sentenza impugnata ed i precetti
normativi che sono stati richiamati a sostegno dell'impugnazione.
Ne segue che tale motivo appare inammissibilmente formulato in violazione del canone, ripetutamente
affermato da questa Corte, secondo cui il motivo d'impugnazione è costituito dall'enunciazione delle
ragioni per le quali la decisione è erronea e si traduce in una critica della decisione impugnata, non
potendosi, a tal fine, prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento stesso, la mancata
considerazione delle quali comporta la nullità del motivo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, che,
nel giudizio di cassazione, risolvendosi in un "non motivo", è sanzionata con l'inammissibilità ai sensi
dell'art. 366 c.p.c., n. 4 (Cfr., ex multis, Cass., sez. 3, 31/8/2015, n. 17330, Rv. 636872 - 01; v. anche
Cass., sez. 6-5, 8/1/2014 n. 187, Rv. 628775 - 01; Cass., sez. 6-1, 7/9/2017 n. 20910, Rv. 645744 - 01).
Sotto altro ed ulteriore profilo, rileva il collegio che, essendo state riproposte sostanzialmente le stesse tesi
difensive esposte nei due gradi di merito e disattese da entrambi i giudici con motivazione sostanzialmente
conforme (nella sentenza di appello si legge che "l'affermata chiarezza a del tenore della clausola risulta
sufficiente ad escluderne l'abrasività...."), il motivo risulta inammissibile anche perchè, pur deducendo
apparentemente una violazione di norme di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti (circa
l'ambiguità o meno della clausola in contestazione) operata dal giudice di merito, contrapponendone una
difforme, così sostanzialmente tentando di realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di
legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (cfr. Cass., sez. 6-3, 4/4/2017, n. 8758, Rv.
643690 - 01; v. anche Cass. sez. 6-5 7/4/2007 n. 9097, Rv. 643792 - 01).
Ancora, l'inammissibilità del motivo emerge anche in considerazione della circostanza che la decisione
impugnata, confermando la ricostruzione già operata dal Tribunale e rilevando che la stessa non era stata
oggetto di specifica censura, ha qualificato l'art. 5.3 delle condizioni generali di assicurazione quale
clausola che contemplava "non già limiti di responsabilità della Compagnia di assicurazione, bensì l'oggetto
del contratto, riguardando il contenuto ed i limiti della garanzia assicurativa".
Ne deriva che l'interpretazione di tale clausola, in relazione alla quale non è stata denunciata la violazione
di alcun criterio ermeneutico, nè proposta alcuna censura ex art. 360 c.p.c., n. 5, sfugge al sindacato di
legittimità.
Ciò in applicazione del principio, al quale il collegio intende dare continuità, secondo cui "l'interpretazione
delle clausole in ordine alla portata ed all'estensione del rischio assicuralo rientra tra i compiti del giudice
di merito ed è insindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da
congrua motivazione, poichè il sindacato di legittimità può avere ad oggetto non già la ricostruzione della
volontà delle parti, bensì solamente l'individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il
giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in
vizi del ragionamento o in errore di diritto" (cfr. Cass., sez. 3, 31/3/2006, n. 7597, Rv. 587980 - 01, Cass.
sez. 3, 15/2/2007 n. 3468, Rv. 595331 - 01).
2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la "violazione e falsa applicazione degli artt. 1901 e 1325-
1460 c.c. con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3", perchè la clausola 5.3 delle c.d.a. violerebbe il
sinallagma contrattuale laddove esclude il diritto all'indennizzo per i trenta giorni successivi al pagamento
del premio, nonostante che tale pagamento sia avvenuto prima del verificarsi del sinistro.
Secondo la tesi esposta nel motivo, l'art. 1901 c.c., che rappresenta una applicazione dell'eccezione di
inadempimento ex art. 1460 c.c., sarebbe fondato sul principio secondo cui il rischio non è coperto se il
premio non è stato pagato, con la conseguenza che, una volta avvenuto il pagamento, la sospensione
dovrebbe ritenersi illegittima.
2.1 La formulazione della doglianza non consente di cogliere con chiarezza se anche con tale secondo
motivo il ricorrente intenda far valere la vessatorietà della clausola in questione, questa volta quale
conseguenza dell'asserita alterazione del sinallagma funzionale del rapporto di assicurazione delineato
dall'art. 1901 c.c. (come sembrerebbe desumibile dal richiamo alla giurisprudenza di questa Corte secondo
la quale "le clausole di regolazione del premio possano, senza dubbio, essere sottoposte alla disciplina
delle clausole abusive": v. pag. 8 del ricorso), ovvero miri a censurare tout court la violazione del citato
art. 1901 c.c. al di fuori ed indipendentemente dalla disciplina delle clausole abusive delineata dagli artt.
1469 ter e ss. c.c. (come sembrerebbe e evincersi dalla restante illustrazione del motivo, svolta alle pp. 8-
11 del ricorso).
2.2 Nel primo caso, il motivo risulta inammissibile per le stesse ragioni già illustrate con riferimento al
primo motivo, mancando ogni riferimento al "decisum" della sentenza impugnata e mirando a proporre,
per altra via, un diverso apprezzamento di fatto circa la natura abusiva o meno della clausola.
Invero il ricorrente, anche con riferimento a tale motivo, non ha svolto alcuna puntuale critica nei confronti
della motivazione della sentenza impugnata, sebbene quest'ultima, dopo aver qualificato la clausola in
questione siccome attinente all'oggetto del contratto, abbia espressamente escluso sia che la stessa
rientrasse tra quelle indicate dall'art. 1341 c.c., sia che potesse configurarsi la sua natura vessatoria in
applicazione dell'art. 1469 ter c.c., comma 2.
Risulta così violato anche il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale il
vizio della sentenza previsto dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena
d'inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell'art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l'indicazione delle
norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili
ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto
contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della
fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente
impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della
lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati,
come nella specie, per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate,
ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le
questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni
nell'ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso
la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata
(cfr., per tutte, Cass. sez. 1, 29/11/2016, n. 24298, Rv. 642805 - 02).
2.3 Qualora invece il motivo in esame debba intendersi rivolto a denunciare la violazione del citato art.
1901 c.c. indipendentemente dalla disciplina delle clausole abusive delineata dagli artt. 1469 ter e ss. c.c.,
esso risulta comunque infondato.
Invero l'art. 1901 c.c. si riferisce soltanto agli effetti dell'inadempimento dell'obbligazione di pagamento
del premio nascente dal contratto già concluso ed efficace, non alla decorrenza pattizia dell'efficacia del
contratto o delle obbligazioni che da esso derivano, che pertanto rimane affidata all'autonomia negoziale
delle parti (V. Cass. 24/5/2006 n. 12353, Rv. 590725 - 01, in riferimento alla ipotesi di cui all'art. 1901
c.c., comma 1).
In particolare, per quanto qui interessa, il comma 2 della citata norma si limita a prevedere che il mancato
pagamento alla scadenza, da parte dell'assicurato, di un premio successivo al primo determina la
sospensione della garanzia assicurativa non immediatamente, ma solo dopo il decorso del periodo di
tolleranza di quindici giorni, senza nulla stabilire (a differenza del primo comma) in ordine al momento di
riattivazione della polizza a seguito di un pagamento successivo.
La norma invocata dal ricorrente, dunque, a differenza di quanto previsto dal comma 1, non impone alcun
termine per la riattivazione della polizza dopo il tardivo pagamento del premio o della rata di premio
successivo al primo.
Deve conseguentemente ritenersi che, in assenza di diversa previsione normativa (circostanza che
consente di escludere anche la sussistenza di una non consentita deroga dell'art. 1901 c.c., comma 2, in
violazione dell'art. 1932 c.c., peraltro non invocato dal ricorrente), tale termine può essere liberamente
stabilito dalle parti, restando escluso che possa trovare applicazione la disposizione del primo comma del
medesimo articolo, la quale, nelle ipotesi di ritardi nelle rate di premio successive alla prima, soccorre
esclusivamente in via analogica (come nel caso esaminato da Cass., sez. 3, 31/10/2014 n. 23149, Rv.
633447 - 01) e solo in assenza di diversa previsione convenzionale.
Così restando escluso che l'art. 1901 c.c., comma 2, imponga un determinato equilibrio giuridico ed
economico nei rapporti di assicurazione, essendo tale norma volta solo a disciplinare gli effetti
dell'inadempimento nei limiti sopra ricordati, la dedotta alterazione funzionale del sinallagma contrattuale
risulta irrilevante, atteso che nel nostro ordinamento non è rinvenibile alcun principio generale che
imponga alle parti di elaborare un assetto di interessi in cui le diverse prestazioni abbiano uno stretto
rapporto di corrispettività, intesa nella duplice prospettiva, economica e giuridica.
Al contrario, un'alterazione, liberamente scelta, dell'equilibrio economico è accettata dall'ordinamento, il
quale si preoccupa soltanto, da un lato, di salvaguardare la correttezza e buona fede nella fase delle
trattative contrattuali (artt. 1337 e 1338 c.c.) o in pendenza della condizione (art. 1358 c.c.) e, dall'altro,
di consentire la eliminazione di fattispecie negoziali nelle quali qualche fatto abbia influito negativamente
sulla formazione o sullo svolgimento del rapporto contrattuale, ma ciò solo in casi tassativamente
determinati, come si evince dalla disciplina degli istituti della rescissione (artt. 1447 e 1448 c.c.) e della
risoluzione per eccessiva onerosità (art. 1467 c.c.).
Anche lo squilibrio giuridico tra le parti trova una disciplina circoscritta nel codice civile, come può
desumersi dagli artt. 1341 e 1342 c.c., volti a tutelare il contraente debole nell'ambito dei rapporti
contrattuali di mercato mediante la prescrizione di un semplice onere formale, qual è la specifica
approvazione scritta.
A tali norme del codice civile si sono successivamente affiancate numerose disposizioni volte a disciplinare
l'equilibrio contrattuale, inteso in senso prevalentemente giuridico (dei diritti e degli obblighi
rispettivamente assunti dalle parti), emanate soprattutto in attuazione di direttive comunitarie (tra queste:
il D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 recante il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia; il
D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 111 in Attuazione della direttiva n. 90/314/CKE 175 concernente i viaggi, le
vacanze ed i circuiti "tutto compreso"; la L. 6 febbraio 1996, n. 52, che, in attuazione della direttiva
93/13/CEE ha introdotto, nel Titolo II del Libro IV del Codice civile, il Capo XIV bis, intitolato "Dei contratti
del consumatore" con gli artt. artt. 1469 bis e ss.; la L. 7 marzo 1996, n. 108 recante "Disposizioni in
materia di usura"; la L. 18 giugno 1998, n. 192 sulla "Disciplina della subfornitura nelle attività
produttive"; la L. 30 luglio 1998, n. 281 sulla "Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti"; il D.Lgs.
22 maggio 1999, n. 185 in Attuazione della direttiva 97/7/CE, relativa alla protezione dei consumatori in
materia di contratti a distanza; il D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 in Attuazione della direttiva 2000/35/CE
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali).
Tali interventi normativi, tuttavia, se da un lato sono sintomatici di una maggiore attenzione del legislatore
al ruolo dei valori di equità ed equilibrio nei rapporti negoziali, dall'altro, per la loro frammentarietà e
specificità, non consentono allo stato di ricavare un principio generale a tutela del "sinallagma
contrattuale" (salvo il caso, non dedotto nè ravvisabile nella fattispecie in esame, in cui la sua assenza si
traduca in un vizio genetico del contratto per mancanza di causa).
3. In conclusione il ricorso deve essere respinto.
La novità delle questioni trattate, in particolare con riferimento ai rapporti tra sinallagma contrattuale ed
art. 1901 c.c., integra il presupposto della ricorrenza dei giusti motivi per la compensazione integrale delle
spese di lite, trovando applicazione il testo dell'art. 92 c.p.c., comma 2, nella formulazione antecedente
alle modifiche introdotte dal L. n. 263 del 2005, art. 2 (ulteriormente modificato dalla L. n. 69 del 2009,
art. 45 e, da ultimo, dal D.L. n. 132 del 2014, art. 13, conv. in L. n. 162 del 2014), atteso che il presente è
stato instaurato nell'anno 2001.
Sussistono invece i presupposti per il raddoppio del contributo unificato da parte del ricorrente ai sensi del
D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10 e art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. n. 228 del 2012.
4. Provvedendo, infine, sulla richiesta della società controricorrente di cancellazione, ex art. 89 c.p.c., delle
espressioni contenute nel ricorso che considera sconvenienti o offensive nei suoi confronti, osserva
preliminarmente questa Corte che la norma citata è applicabile anche nel giudizio di legittimità, con
COMPETENZA E GIURISDIZIONE CIVILE
Regolamento di competenza
CONSUMATORE (tutela del)
riferimento alle frasi contenute negli scritti depositati davanti alla Corte di Cassazione (Cass., sez. 3,
16/3/2005 n. 5677, Rv. 581637 - 01) e che ai fini dell'apprezzamento della sussistenza dei presupposti per
la cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti (così come per la distinta ed autonoma sanzione
del risarcimento del danno, pure prevista dall'art. 89 c.p.c., non invocata nel caso in esame) "occorre
valutare l'effettivo rapporto tra le espressioni usate e l'oggetto della causa, atteso che tali presupposti non
sono ravvisabili se le espressioni contenute negli scritti difensivi non sono dettate da un passionale e
incomposto intento dispregiativo e non rivelano, perciò, un intento offensivo nei confronti della
controparte, ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza
eccedere dalle esigenze difensive, sono preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del
comportamento della controparte, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni" (Cass. sez. 3, 05/05/2009,
Rv. 608174 - 01, con riferimento alla cancellazione; cfr. anche Cass. sez. 2, 31/08/2015, n. 17325, Rv.
636223 - 01, con riferimento alla sanzione risarcitoria).
Tanto premesso, reputa il Collegio che nella specie non ricorrano i presupposti per accogliere l'istanza di
cancellazione, atteso che le espressioni usate nel ricorso a pagina 7, nei righi 21 e 22 ("E' questo,
quell'efficacissimo, subdolo, sleale, malizioso imbroglio realizzato utilizzando..."), delle quali si duole la
controricorrente, sono pienamente riconducibili alle finalità difensive (che erano quelle di evidenziare
l'ambiguità della clausola in discussione e, conseguentemente, la sua vessatorietà), in quanto attinenti
proprio al fulcro della materia del contendere, sia pure attuate con gli accenti di una vivace disputa
processuale, ma non per questo eccedenti i limiti difensivi e, tantomeno, tali da esprimere intenzionalità
offensive o gratuitamente dispregiative.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e compensa interamente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,
comma 17, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis del lo
stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di Cassazione, il 22
gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2018