Cassazione civile, SEZIONE III, 17 luglio 2003, n. 11200
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Ernesto LUPO - Presidente -
Dott. Francesco TRIFONE - Consigliere -
Dott. Ennio MALZONE - Consigliere -
Dott. Antonio SEGRETO - Rel. Consigliere -
Dott. Angelo SPIRITO - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BARNABO ALESSANDRO, domiciliato in ROMA presso LA CORTE Di
CASSAZIONE, difeso dall'avvocato ANTONIO BERTOLI con studio 35131
PADOVA CORSO DEL POPOLO 8, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
BANCO DI NAPOLI SPA, FILIALE DI BOLOGNA, in persona dei legali
rappresentanti pro tempore dott. Viggiani Bruno e Dott. Paolo Casale
per sè e quale mandataria e procuratrice della Società per la
Gestione di Attività SGA spa, corrente in Napoli, in persona del
presidente del C.d.A. dott. Marco Zanzi, cessionaria del credito,
elettivamente domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR 10 presso lo studio
dell'avvocato BARUCCO FERDINANDO, che la difende anche disgiuntamente
all'avvocato COLUCCI ANTONIO, giusta delega in atti;
- controricorrente -
nonché contro
METALPLASTICA ALLUMINIO SPA IN CONCORDATO PREVENTIVO;
- intimata -
avverso la sentenza n. 2067-97 della Corte d'Appello di VENEZIA,
Sezione I Civile, emessa il 23-10-97 e depositata il 13-12-97 (R.G.
220-97);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
08-05-03 dal consigliere Dott. Antonio SEGRETO;
udito l'Avvocato Massimo ANGELINI (per delega Avv. Ferdinando
BARUCCO);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Libertino Alberto RUSSO che ha concluso per il rigetto del ricorso ed
istanza di interruzione del processo presentato dal Banco di Napoli.
Fatto
Con citazione del 26.10.1995 Alessandro Barnabò proponeva opposizione a decreto ingiuntivo emesso per L. 1.431.934.759 nei suoi confronti dal presidente del tribunale di Venezia, su richiesta del Banco di Napoli; nel relativo ricorso il Banco assumeva di essere creditore di tale somma in quanto il Barnabò aveva a suo tempo garantito con fideiussione (e successiva ipoteca) debiti che verso il banco aveva la s.p.a. Metalplastica alluminio, ammessa il 2.12.1993 a concordato preventivo. Resisteva all'opposizione il Banco. II tribunale di Venezia, con sentenza depositata l'8.9.1996, rigettava l'opposizione. Proponeva appello il Barnabò. La corte di appello di Venezia, con sentenza depositata il 3.12.1997, rigettava l'appello. Riteneva la corte di merito, quanto all'assunta nullità della procura per illeggibilità delle firme, che la stessa non sussisteva, in quanto dai saldaconti allegati al ricorso per decreto ingiuntivo, emergeva il nome dei firmatari degli stessi, la cui firma era identica a quella in calce alla procura, e che trattavasi dei due vicedirettori della filiale di Venezia, i quali, a norma degli artt. 17 e 26 dello Statuto, avevano la rappresentanza della stessa davanti a qualsiasi magistratura; che, in ogni caso essi avevano detto potere a norma dell'art. 2204 c.c.. Secondo la Corte non sussisteva la nullità della fideiussione per mancanza di sottoscrizione delle clausole vessatorie da parte della Banca, sia perché la fideiussione comporta obbligazioni per il solo fideiussore, sia perché la necessità della doppia firma per la validità delle clausole vessatorie, attiene solo alla firma della parte che non ha predisposto le condizioni (parte debole). Riteneva la corte che la clausola contrattuale di dispensa del banco dal chiedere speciale autorizzazione ex art. 1956 era valida, in quanto precedente alla legge 154-1992 e che non era stato violato il dovere di buona fede da parte della banca, poiché il Barnabò conosceva le condizioni economiche del debitore garantito. Quanto all'assunta risoluzione del contratto di finanziamento per eccessiva onerosità, riteneva la corte di non accogliere la domanda sia perché il Barnabò non era legittimato, sia perché le oscillazioni del cambio sono nel rischio normale dei crediti in valuta estera. Secondo la corte andava rigettata anche la domanda di dichiarazione di invalidità dell'atto costitutivo di ipoteca, essendo la stessa riposta sull'assunta invalidità della fideiussione, nella specie infondata. Inoltre, secondo la Corte, era manifestamente infondata la sollevata eccezione di incostituzionalità dell'art. 184 l.f.. Riteneva la corte che nella fattispecie non fosse applicabile la l. n 52-1996, in tema di clausole vessatorie, nei contratti tra il professionista ed il consumatore, poiché il contratto di fideiussione era stato concluso prima dell'entrata in vigore della legge, come prima di tale data erano sorti i debiti ed il debitore era stato ammesso al concordato preventivo. Infine riteneva la corte territoriale che l'esistenza dei crediti del banco erano provati dagli estratti - conto, non contestati dal debitore principale, ai sensi dell'art. 1832 c.c., e che non sussisteva l'assunta natura usuraria degli interessi, poiché l'aumento del debito era dovuto esclusivamente al rapporto di cambio tra marco e lira. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Barnabò. Resiste con controricorso il Banco di Napoli, che ha anche presentato memoria.
Diritto
1. Preliminarmente va rigettata la richiesta di interruzione del procedimento avanzata dai difensori del Banco di Napoli, a seguito dell'incorporazione del banco predetto nella Sanpaolo IMI s.p.a.. Infatti il processo di cassazione, caratterizzato dall'impulso d'ufficio, non è soggetto ad interruzione in presenza degli eventi previsti dagli art. 299 ss. c.p.c., poiché tali norme si riferiscono esclusivamente al giudizio di merito e non sono suscettibili di applicazione analogica in quello di legittimità (Cass. 1 dicembre 1998, n. 12198; 11 giugno, 1999, n. 575). Pertanto anche la fusione mediante incorporazione in altra società, verificatasi nel corso di detto procedimento nei confronti di una società parte in causa, resta improduttiva di effetti, e non può essere dedotta e dimostrata mediante deposito di documentazione, ostandovi il disposto dell'art. 372 c. p. c (Cass. 9 agosto 1983, n. 5325). 2.1.Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione delle norme sulla procura ad litem, poiché le firme in calce alla stessa erano illeggibili e dalla procura e dal ricorso per decreto ingiuntivo non emergeva chi fossero i soggetti che avevano rilasciato la procura, non potendo farsi riferimento ai saldaconti, che erano atti esterni rispetto a quello introduttivo della lite. Ritiene, inoltre, il ricorrente, quanto alle attribuzioni di poteri rappresentativi ai direttori delle filiali, a norma dell'art. 28 dello Statuto, che tale disposizione è nulla, poiché, in assenza della procura, tale potere rappresentativo non può essere rilasciato a persona diversa dagli amministratori. In ogni caso detto potere rappresentativo competeva solo ai direttori della filiale e non anche ai vicedirettori, come nella specie. Infine, secondo il ricorrente, nessuna rilevanza poteva avere la dichiarazione della direzione generale del banco sull'esistenza del potere rappresentativo, che non aveva neppure data certa. Z.2.Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che lo stesso, per l'effetto, vada rigettato. Osserva questa corte che nel conferimento della procura alle liti ai sensi dell'art. 83, comma 3, c.p.c., la certificazione, da parte del difensore, dell'autografia della sottoscrizione del conferente postula che ne sia accertata l'identità ed esige, per ciò, che ne sia indicato il nome. Pertanto, quando nè nell'intestazione del ricorso per cassazione proposto da una società o da, altro ente collettivo, nè nella procura risulti il nome della persona fisica che l'ha conferita (perché non è nominativamente indicata e la firma è illeggibile), l'incertezza sulla persona del conferente, preclusiva della successiva indagine sull'esistenza in capo a lui dei necessari poteri rappresentativi, rende invalida la procura, a meno che sia idoneamente documentato mediante la produzione di atti già esistenti al momento del conferimento, il riferimento della già indicata qualità di "legale rappresentante" ad una ben individuata persona fisica (Cass. S.U. 5 febbraio 1994, n. 1167; Cass. n. 7176 del 1995). 2.3.Nella fattispecie la corte di merito ha accertato che la procura era illeggibile e che dalla stessa, nonché dal ricorso, non emergeva il nome dei due firmatari, ma che dai saldaconti allegati al ricorso per decreto ingiuntivo, emergeva con chiarezza il nome dei due firmatari e la loro qualità (vicedirettori) e che tali firme erano eguali a quelle apposte in calce alla procura. Poiché tali atti erano già esistenti al momento del rilascio della procura e gli stessi furono depositati contestualmente al ricorso per decreto ingiuntivo, la doglianza sulla nullità di detta procura è infondata. 3.1.Infondata è anche la censura secondo cui il direttore della filiale non aveva poteri rappresentativi. Infatti il potere del direttore di filiale di un istituto di credito di stare in giudizio nella qualità di rappresentante dell'ente, a lui conferito dallo statuto, ne implica la rappresentanza dell'ente e cosi la legittimazione a stare in giudizio in nome e per conto dello stesso senza bisogno di speciale procura (Cass. 23 dicembre 1993, n. 12762; Cass. 8.2.1990, n. 884; Cass. 7696 del 1991). Tale motivazione è anche in armonia con il principio, affermato da questa Corte Suprema, in conformità a quanto previsto dall'art. 2204, c. 2 c.c., secondo cui i dirigenti delle diverse filiali di una banca hanno qualità institorie, donde sono normalmente legittimati attivamente e passivamente a stare in giudizio in nome della banca per i rapporti dipendenti da atti da essi intrapresi nell'esercizio delle filiali (sent. 26 novembre 1964 n. 2805; v. anche, sostanzialmente nello stesso senso: sent. 25 marzo 1970 n. 811; sent. 11 novembre 1970 n. 2351; ed altre). La corte di merito, nella fattispecie, ha accertato che gli artt. 17 e 26 dello Statuto, del banco di Napoli attribuivano direttamente alle rappresentanze delle filiali la rappresentanza delle stesse davanti a qualsiasi magistratura, con potestà di nominare difensori. 3.2. Di nessun rilievo è il fatto che nella fattispecie i due rappresentanti sarebbero stati due vicedirettori e non il direttore della filiale. Infatti il vicedirettore di una filiale ha funzione vicaria del direttore, per cui legittimamente esercita dette funzioni in caso di assenza o impedimento del direttore, a nulla rilevando, ai fini della mancata indicazione, nella procura, delle ragioni di assenza o impedimento del direttore, dovendosi presumere, in assenza di prova contraria, gravante sulla controparte, che la sostituzione sia avvenuta legittimamente (cfr. Cass. 8 febbraio 2000, n. 1380). 3.3. In ogni caso nella fattispecie la sentenza impugnata ritiene che detto potere di rappresentanza fosse conferito dallo statuto alle direzioni di filiali e quindi tanto ai direttori che ai vicedirettori. L'assunto del ricorrente, secondo cui solo i direttori avessero detto potere e non anche i vicedirettori, passa, quindi, necessariamente attraverso una diversa interpretazione dello statuto della società. A tal fine va rilevato da una parte che la sentenza non risulta censurata sotto questo profilo e dall'altra che, in ogni caso, non sono indicati i canoni ermeneutici che risulterebbero violati nè risulta riportata la norma dello statuto, che limiterebbe detta rappresentanza ai soli direttori, con esclusione dei vicedirettori, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso. Il rigetto di tali censure avverso la predetta motivazione di validità della procura, che da sola è idonea a fondare la decisione, rende priva di interesse processuale la censura relativa alla errata funzione assegnata alla dichiarazione della direzione generale del Banco di Napoli. 4. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione delle norme sulle clausole vessatorie e sulla fideiussione, nonché l'invalidità della fideiussione.
Il ricorrente assume che il contratto di fideiussione sarebbe nullo, perché solo egli e non anche la banca, avrebbe apposto la seconda sottoscrizione in calce alle clausole vessatorie. Ritiene il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha fondato il rigetto del relativo motivo di appello sulla considerazione che la fideiussione rientrava tra i contratti di cui all'art. 1333 c.c.. Inoltre il ricorrente censura l'impugnata sentenza, per avere erroneamente ritenuto che la banca non avesse violato il dovere di buona fede, per avere, pur in presenza della dispensa dalla speciale autorizzazione a norma dell'art. 1956 c.c., concesso ulteriore mutuo alla Metalplastica. 5.1. Ritiene questa Corte che la prima censura di questo articolato motivo sia inammissibile, mentre la seconda sia infondata. Quanto alla prima censura (mancata sottoscrizione della clausola vessatoria anche da parte della banca), va osservato che la sentenza ha rigettato il relativo motivo di appello, sulla base di due motivazioni. Con la prima ha appunto sostenuto che il contratto di fideiussione rientrasse nella categoria di cui all'art. 1333 c.c. (contratti con obbligazioni del solo proponente). Questa argomentazione è stata impugnata con il presente motivo.
Con la seconda motivazione, autonoma rispetto alla prima, la sentenza impugnata ha rigettato il motivo di appello, ritenendo che nella fattispecie non ricorresse la necessità della firma della banca in calce alle clausole vessatorie a norma dell'art. 1341 c.c., perché la necessità della doppia firma per la validità delle clausole vessatorie, attiene solo alla firma della parte che non ha predisposto le condizioni (parte debole). Questa seconda motivazione non è stata impugnata. 5.2. Ciò comporta l'inammissibilità della censura in esame. Infatti quando la statuizione impugnata sia fondata su più ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali sia giuridicamente e logicamente idonea a sorreggere la pronuncia, l'omessa censura di una di tali ragioni rende inammissibile, per difetto d'interesse, il motivo di ricorso per cassazione relativo alle altre, in quanto la sua eventuale fondatezza non potrebbe mai condurre all'annullamento della sentenza, essendo divenuta definitiva la motivazione autonoma non impugnata. (Cass. 9 dicembre 1994, n. 10555). 6. Anche la seconda censura è infondata. Infatti la sentenza impugnata, con accertamento in fatto e con motivazione immune da censure nei limiti in cui la stessa è censurabile in sede di sindacato di legittimità, ha accertato che il banco di Napoli ha rispettato il dovere di buona fede richiesto comunque al creditore garantito, anche in presenza di clausola di dispensa dall'osservanza dell'art. 1956 c.c., sia perché il Barnabò aggiunse, in calce alla fideiussione la limitazione di essa a L.1500 milioni, sia perché il Barnabò aveva sicura conoscenza della situazione debitoria della Metalplastica, atteso che la stessa era in parte sua e dei suoi familiari, sia perché tale conoscenza risulta dalla corrispondenza esibita dal banco, sia perché per un periodo egli, che era già socio, fu anche vice - presidente, con poteri di amministrazione. 7. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1469 bis e segg. c.c., per non aver applicato dette norme, ritenendo l'inefficacia delle clausole vessatorie.
Ritiene il ricorrente che nella fattispecie non si trattasse di situazione esaurita, poiché questa si verifica solo in quei rapporti nell'ambito dei quali siano decorsi i termini di prescrizione e decadenza per l'esercizio dei relativi diritti e per i quali si sia formato il giudicato. 8.1. Ritiene questa Corte che il motivo di ricorso non possa essere accolto. Va premesso che la sentenza di appello fonda la non applicabilità della disciplina introdotta dall'art. 25 l. n. 52-1996 su due argomentazioni: la prima è che il contratto di fideiussione sia un contratto ad effetto istantaneo, poiché l'effetto dello stesso è, quello di costituire una garanzia personale in modo certo, e non un contratto di durata (il contratto di fideiussione in questione rimonta a molti anni prima dell'entrata in vigore della legge). In ogni caso, secondo la corte di merito, non poteva aversi l'inefficacia delle clausole in questione, poiché esse avevano conseguito i loro effetti in un momento antecedente alla data di entrata in vigore della legge n. 52-1996, in quanto, con il finanziamento in marchi avvenuto prima della detta data, sia la clausola contrattuale "omnibus" sia la clausola che prevedeva la rinuncia ad avvalersi della liberazione, ebbero il loro concreto effetto, rendendo il Bernabò fideiussore anche di detti successivi debiti. 8.2. Il ricorrente, anzitutto, non censura la prima delle argomentazioni su cui la sentenza impugnata fonda la propria decisione e ciò, indipendentemente dal merito della questione, già rende il motivo di ricorso inammissibile, stante la pluralità di argomentazioni autonome. 8.3.In ogni caso, anche a prescindere da ciò, esattamente i giudici del merito hanno omesso di valutare la conformità (o meno) delle clausole in questione alla disciplina sopravvenuta, di cui alla l. 6 febbraio 1995, n.52.
Giusta la regola generale posta dall'art. 11, comma 1, preleggi, infatti, poiché la legge non dispone che per l'avvenire, essa non ha effetto retroattivo.
Ne deriva, come assolutamente pacifico in dottrina e nella consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, che la validità - o meno - di qualsiasi contratto - in difetto di una eventuale norma espressamente dichiarata retroattiva dal legislatore - deve essere sempre riferita alle norme in vigore nel momento della sua conclusione (e non a quello della sua applicazione o - come si assume in questa sede - della sua verifica in sede giudiziale) (In tale senso, ad esempio, Cass., 28 marzo 1997, n. 2776; Cass., 2 aprile 1996, n. 3028; Cass., 21 febbraio 1995, n. 1877, nonché Cass., 21 ottobre 1994, n. 8651 e Cass. 27 aprile 1993, n. 4926). Essendo pacifico nella specie che il contratto di fideiussione, per cui è controversia, è stato concluso ben anteriormente all'epoca di entrata in vigore dell'art. 25, l. 6 febbraio 1996, n. 52; che i finanziamenti in marchi (quelli di cui si lamenta il ricorrente) furono concessi prima della nuova legge, per cui alla data di entrata in vigore della stessa, il Barnabò già si trovava a garantire detto debito in marchi e che anteriormente alla legge n. 52-1996 è stato promosso il presente giudizio, introdotto con ricorso del 27.10.1995, è palese la non riferibilità, alla presente vertenza, della disciplina dettata per i "contratti del consumatore" dagli artt. 1469 bis e ss. c.c.(Cass. 29.11.1999, n. 13339). Correttamente, quindi, la corte di merito ha ritenuto l'ininfluenza della nuova legge sia ai fini della clausola omnibus (ex art. 1956 c.c.) sia ai fini della clausola di rinunzia ex art. 1957 c.c.. 9. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione delle norme sull'onere della prova e-o contraddittoria insufficiente motivazione. Assume il ricorrente che erroneamente la corte di appello ha ritenuto provato il credito della banca, in quanto nei suoi confronti non opera l'art. 1832, c.c., attenendo lo stesso ai rapporti tra debitore e banca, per cui il fideiussore non può essere pregiudicato dall'atteggiamento rinunciatario del debitore. 10. Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che lo stesso vada rigettato.
Premesso che nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto provato il credito della banca sulla base degli estratti conto inoltrati alla debitrice Metalplastica e non contestati, va osservato che, qualora sia stata prestata una fideiussione a garanzia di una apertura di credito bancaria in conto corrente ed il debitore principale - non avendo contestato tempestivamente gli estratti conto inviatigli dalla banca - sia decaduto, ai sensi dell'art. 1832 c.c. dal diritto di impugnarli, le risultanze degli estratti conto sono vincolanti anche per il fideiussore che non può pertanto contestare l'ammontare del credito della banca (Cass. 29 ottobre 1998, n. 10808; Cass. 11 marzo 1996, n. 1978; Cass. 10 novembre 1993, n. 11084). 11. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1278 c.c. e-o la contraddittoria motivazione. Assume il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che, essendo stato contratto in marchi il finanziamento bancario, la restituzione doveva avvenire in marchi. Anzitutto osserva il ricorrente che la banca versò lire e non marchi; che in ogni caso era sempre in facoltà del debitore a norma dell'art. 1278 c.c. pagare in moneta avente corso legale nello Stato e, quindi, in lire. 12.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che lo stesso vada rigettato.
Quanto alla prima censura va osservato che, con accertamento in fatto non censurabile in questa sede, la sentenza di merito ha rilevato che il finanziamento da parte del banco fu in marchi, da accreditare in apposito conto valuta intestato al debitore presso la banca e che successivamente su richiesta del finanziato la somma in marchi venne cambiata in lire e la somma così risultante fu trasferita sul conto corrente normale. 12.2. Quanto alla seconda censura va osservato che nell'ipotesi regolata dall'art. 1278 c.c. (debito di somme di monete non aventi corso legale) oggetto dell'obbligazione è pur sempre la moneta estera, ma è in facultate solutionis il pagamento in moneta avente corso legale nel luogo all'uopo stabilito, secondo il cambio ufficiale del giorno della scadenza del debito. In altri termini il debitore ha facoltà di pagare in lire (se questa è la moneta in corso legale nello Stato in cui avviene il pagamento), ma il quantum della somma deve essere sempre determinato tenendo conto del debito in moneta estera, cambiata in lire nel giorno in cui avviene il pagamento. La stessa mora debendi non può importare il mutamento dell'oggetto dell'obbligazione, che rimane sempre la moneta estera, sia per il principio della perpetuatio obligationis, sia inoltre, perché il debitore non ha esercitato la facoltà di commutazione in moneta legale, che si avvera solo in forma reale, e cioè solo mediante il pagamento (Cass. 17.5.1983, n. 3414). Pertanto il debitore di somma determinata in valuta estera, se inadempiente, nel caso di sopravvenuta svalutazione della moneta italiana rispetto a quella estera, deve la differenza tra il cambio della data di scadenza e quello della data di pagamento poiché diversamente, trarrebbe ingiusta locupletazione dalla sua mora, ove pagasse in moneta legale al corso del cambio del giorno della scadenza, secondo la facoltà concessagli dall'art. 1278 c.c. (Cass. 12.7.1993, n. 7679). 13. Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1815, c. 2, c.c. nonché l'insufficiente motivazione. Assume il ricorrente che gli interessi pagati negli anni 1993 e 1994 erano usurari, perché, dai conteggi da lui effettuati, essi ammontavano al 36,7 %, per cui in applicazione dell'art. 1815, c. 2, pur nell'originaria formulazione, essi non erano dovuti, se non nella misura legale. 14. Ritiene questa Corte che il motivo sia inammissibile. Infatti il giudice di merito ha escluso che gli interessi fossero previsti ed applicati al tasso indicato dal ricorrente, ritenendo invece che l'aumento del debito fu conseguenza solo del diverso cambio tra lira e marco. Ne consegue che l'assunto del ricorrente, secondo cui il tasso era pari al 36,7%, a fronte di quello ritenuto dal giudice di merito, si risolve in una censura, di travisamento del fatto da parte del giudice di merito. A tal fine va rilevato che il travisamento del fatto non può costituire motivo di ricorso per cassazione, poiché, risolvendosi in un'inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c..(Cass. 15.5.1997, n. 4310; Cass. 2.5.1996, n. 4018). 15. Con il settimo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1429 c.c. e l'insufficiente, omessa motivazione. Assume il ricorrente che egli aveva concesso ipoteca volontaria sui propri beni in favore del banco per la somma di L. 1.358.870.000, ignorando che la fideiussione non fosse valida per i motivi suddetti, per cui se avesse conosciuto le suddette cause di invalidità della fideiussione, non avrebbe costituito l'ipoteca, con la conseguenza che la stessa va annullato per errore di diritto. 16. Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che lo stesso vada rigettato. La Corte di appello ha, infatti, correttamente ritenuto che, essendo valida la fideiussione, era valida anche la costituzione di ipoteca. Poiché, come sopra si è detto, sono stati rigettati tutti i motivi avverso la sentenza di appello relativi alla validità della fideiussione, ne consegue che va rigettato anche il presente motivo, che pone come presupposto, per l'annullamento dell'atto costitutivo dell'ipoteca, l'invalidità della fideiussione. 17. Con l'ottavo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1496 c.c. (rectius: 1467), assumendo che erroneamente la sentenza impugnata ha rigettato la sua domanda di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità, a norma dell'art. 1496 c.c., in quanto, mentre al momento del finanziamento, nel 1992, il marco era quotato a L. 750, nel momento della conversione del finanziamento il marco era quotato a L. 1042,5: ciò rendeva eccessivamente onerosa la prestazione del debitore. In ogni caso il ricorrente lamenta che la corte di merito non si sia pronunziata sulla riduzione ad equità del contratto, a norma dell'art. 1468 c.c.. 18.1. Ritiene questa Corte che il motivo vada rigettato.
La corte di merito non ha accolto il motivo per una duplice ragione: anzitutto perché ha ritenuto che il Barnabò non fosse legittimato ad impugnare il contratto di finanziamento per eccessiva onerosità ed inoltre, perché nella fattispecie non fosse applicabile la disciplina di cui all'art. 1496 c.c., poiché quanto verificatosi, relativo alla forte oscillazione del cambio, era nel rischio normale del rapporto di credito e debito in valuta estera. Il ricorrente ha impugnato solo la seconda autonoma motivazione, per cui il motivo di ricorso è inammissibile (secondo il principio sopra esposto della carenza dell'interesse processuale) non risultando impugnata anche la prima delle argomentazioni che è astrattamente idonea a sorreggere la motivazione. 18.2. In ogni caso è infondata anche la censura relativa alla seconda delle motivazioni. Infatti a norma dell'art. 1467, c. 2, c.c., la risoluzione per eccessiva onerosità non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto. Infatti l'alea normale di un contratto, cui fa riferimento la predetta norma e che non legittima la risoluzione per sopravvenuta eccessiva onerosità, comprende anche le oscillazioni di valore delle prestazioni che possono ritenersi originate dalle regolari e normali fluttuazioni del mercato, senza che tale alea possa confondersi con quell'elemento intrinseco che definisce ed individua i cosiddetti contratti aleatori. Infatti in questi ultimi l'alea si pone come elemento originario ed essenziale che colora e qualifica lo schema causale del contratto già in astratto per sua natura (cfr. art. 1469 c.c.) mentre l'alea normale, cui fa riferimento l'art. 1469, c. 2, c.c., si pone come effetto normale dello specifico oggetto di un contratto, che di per sè non è aleatorio (come nella fattispecie, non potendosi definire aleatorio un contratto di finanziamento bancario). 18.3. La conseguenza è che questa "alea normale del contratto", cui fa riferimento l'art. 1467, c. 2, c.c., dovendo essere valutata in concreto e segnatamente in relazione all'oggetto del contratto, rientra nella valutazione del giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata. Nella fattispecie, con motivazione immune da censure nei limiti in cui esse possono essere fatte valere in questa sede, la corte di merito ha ritenuto che è nel rischio normale del creditore e del debitore di prestiti in valuta estera il verificarsi del ben noto - e relativamente frequente - fenomeno di oscillazioni anche ampie del rapporto di cambio: che, ovviamente, a seconda della direzione dell'oscillazione, possono giovare al creditore o al debitore (cfr. per un caso analogo, Cass. 7.6.1991, n. 6452). 19. Infondata è anche la censura, con cui il ricorrente lamenta che la corte di appello non si sarebbe pronunciata sulla sua richiesta di riduzione ad equità ai sensi dell'art. 1468 c.c..
Infatti, a parte il rilievo dell'inammissibilità della censura non essendo stata essa proposta a norma dell'art. 360 c. 4 c.p.c., come violazione dell'art. 112 c.p.c., in ogni caso la domanda in questione è stata implicitamente ritenuta assorbita dai giudice di appello, una volta esclusa nella fattispecie l'eccessiva onerosità sopravvenuta ai sensi dell'art. 1497 c.c.. 20. Con il nono motivo di ricorso il ricorrente prospetta l'illegittimità costituzionale dell'art. 184, 1 c., l.f., nella parte in cui, pur dichiarando obbligatorio per tutti i creditori (e quindi anche per quelli di rivalsa, quale il Barnabò) il concordato, fa salvo il diritto del creditore principale di agire verso il fideiussore, senza tener conto della falcidia concordataria, così operando un'ingiustificata disparità di trattamento al fideiussore rispetto a tutti gli altri creditori e costringendolo a pagare più di quanto doveva il debitore principale, in contrasto con l'art. 1941 c.c.. 21.1. Ritiene questa Corte che la sollevata questione di legittimità costituzionale è irrilevante ed in ogni caso è manifestamente infondata.
Anzitutto, nel presente motivo non è indicato quale sia il referente normativo costituzionale, rispetto al quale viene sollevata la questione. Tuttavia, poiché si fa riferimento alla disparità di trattamento tra creditori in sede di concordato, pare che esso sia dato dall'art. 3 della Costituzione. Inoltre nella parte terminale si assume che l'art. 184, l.f. di fatto espropria senza indennizzo il fideiussore di una parte di azione di rivalsa, per cui pare che la norma di riferimento della Costituzione sia l'art. 42. 21.2. Sotto il profilo della rilevanza della questione, va osservato che l'art. 184, c. 1, l.f. statuisce che: "Il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato. Tuttavia essi conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso".L'art. 184 l.f. opera, appunto, in sede di concordato preventivo, ed è in quella sede che ha rilevanza stabilire anzitutto se la norma in questione si applichi anche ai fideiussori, che ancora non hanno pagato il debito garantito alla data del decreto di apertura e che quindi non hanno ancora azione di rivalsa nei confronti del debitore, ed in ogni caso è in quella sede che il fideiussore, che - avendo pagato il debito garantito ed agendo in via di rivalsa, potrà sollevare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 184, c. 1, l.f., che gli impedisce di agire per la rivalsa dell'intero. 21.3. In ogni caso, ove si voglia anticipare la rilevanza dell'art. 184 l.f., nell'ambito dell'applicazione dell'art. 1941 c.c. (nel senso che, ove l'art. 184 l.f. si dovesse ritenere non conforme a Costituzione, il fideiussore Barnabò non potrebbe essere condannato al pagamento di una somma maggiore di quella dovuta dal debitore in sede di concordato preventivo) la sollevata questione è manifestamente infondata. Infatti l'art. 184, in tema di concordato preventivo (come l'art. 135 l.f., in tema di concordato fallimentare) stabilisce la regola dell'obbligatorietà (quindi della necessaria falcidia da concordato per i creditori chirografari) del concordato omologato in funzione dell'interesse collettivo ad evitare il fallimento di imprese, pur in stato di insolvenza quando, a determinate condizioni, la maggioranza dei creditori ex art. 177 e 178 ritiene sia più opportuna una riduzione definitiva del proprio credito, pur di evitare appunto il fallimento.
È ragionevole, in nome della par condicio, che, una volta formatasi quella maggioranza e sussistendo le altre condizioni ed in specie l'omologazione, anche i creditori in disaccordo si debbano contentare della quota concordataria. Che questa regola non debba riguardare la diversa situazione che intercorre tra creditore e coobbligati e fideiussori è altrettanto una ragionevole conseguenza proprio dell'esistenza di situazioni debitorie diverse sia come soggetti che come causa dell'obbligazione. È effetto naturale dell'esistenza di una garanzia personale il fatto che il garante sia tenuto al pagamento dell'intero debito (o della residua parte di esso) se il debitore principale non sia in grado di pagare, sia esso imprenditore o meno. Il fideiussore si trova esposto proprio al rischio che assume prestando la garanzia personale: dovrà pagare al creditore tutto quanto non paga il debitore principale. D'altra parte, nel caso di concordato, tutti i creditori garantiti sono immuni da falcidia. Infatti non si può giungere a concordato se non vi è la sicurezza di poter pagare integralmente i creditori non chirografari (privilegiati, pignoratizi o ipotecari); è dunque logico che in analogo modo siano protetti i portatori di garanzie personali, i quali appunto possono chiedere al fideiussore l'intera somma dovuta. 21.4. Pertanto la sollevata questione di illegittimità costituzionale dell'art. 184 l.f. è manifestamente infondata, sia in relazione all'art. 3 Cost., trattandosi di situazioni diverse, a cui ragionevolmente si applica una disciplina diversa, sia in relazione all'art. 42 Cost. in quanto l'art. 184 l.f. non espropria il fideiussore (che paga) di alcunché, perché da una parte paga quanto si era assunto l'obbligo di pagare e dall'altra subisce gli effetti del concordato come qualunque altro creditore. 22. Il ricorso va pertanto rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese sostenute per questo giudizio di cassazione dalla resistente, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione sostenute dalla resistente, complessivamente liquidate in Euro settemilaseicento--00, di cui Euro 7500--00 per onorario di avvocato, oltre spese generali ed accessori di legge. Così deciso in Roma, li 8 maggio 2003.