Cassazione Civile, Sez. III, 21 giugno 2004, n. 11487
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill. mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Gaetano NICASTRO Presidente
Dott. Francesco SABATINI Consigliere
Dott. Michele VARRONE Consigliere
Dott. Italo PURCARO Consigliere
Dott. Giovanni Battista PETTI Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.V., elettivamente domiciliata in ROMA VIA OSTIENSE 183, presso lo
studio dell'avvocato CARLO TESTA, che la difende, giusta delega in
atti
- ricorrente -
contro
A. SPA, con sede in Roma, in persona dell'Amministratore Delegato dott. G. B., elettivamente domiciliata in ROMA VIA SABOTINO 46, presso lo studio dell'avvocato PATRIZIA PROPERZI, che la difende, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 3017/00 della Corte d'Appello di ROMA, Sezione
III Civile, emessa il 28/06/00 e depositata il 05/10/00 (R.G. 291/95);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/01/04 dal Consigliere Dott. Giovanni Battista PETTI; udito l'Avvocato Carlo TESTA; udito l'Avvocato Patrizia PROPERZI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonietta CARESTIA che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
Con citazione del 10 ottobre 1989, A.V., nella veste di assicurata in relazione a polizza contro il rischio di malattie infettive e di infezioni, nello esercizio di attività di infermiera presso il Pio Istituto S. Spirito Ospedali riuniti, conveniva dinanzi al Tribunale di Roma la impresa assicuratrice A. s.p.a. ed agiva per la liquidazione del rischio assicurato, avendo contratto una malattia professionale comportante la riduzione della capacità lavorativa e la dispensa dal servizio, come accertato in sede INAIL e presso la Commissione medica presso l'ospedale militare.
L'impresa si costituiva non contestando il merito ma eccepiva la prescrizione breve e la improcedibilità della domanda.
Istruita la lite il Tribunale con sentenza del 21 gennaio 1994 riteneva che il diritto si fosse prescritto e rigettava la domanda.
La infermiera impugnava la decisione deducendo la tempestività della domanda in relazione al tempo dell'azionabilità del diritto e ciò dopo la procedura amministrativa di accertamento della natura professionale dell'infortunio ed insisteva per il pagamento dell'indennizzo dovuto oltre rivalutazione interessi, risarcimento dei danni ulteriori e vittoria delle spese di lite. Resisteva l'impresa, sia per l'improcedibilità della domanda che per la debenza dello indennizzo. La Corte di appello, con una prima decisione parziale (del 5 giugno 1997) accoglieva l'appello sul punto della inesistenza della prescrizione al tempo della domanda e sul punto della proponibilità, quindi con separata ordinanza disponeva la prosecuzione della istruttoria, ammettendo consulenza tecnica medico legale. All'esito della istruzione, con sentenza definitiva del 5 ottobre 2000 la Corte rigettava la domanda proposta dall'infermiera rilevando che "ai fini dell'accertamento delle condizioni (della clausola contrattuale sul rischio assicurato) non assumono rilievo alcuno le conseguenze provocate da infortuni, ancorché coperti da garanzia". Contro la decisione ricorre la A.V. deducendo due motivi di censura, resiste la assicuratrice con controricorso.
Diritto
Il ricorso merita accoglimento per le seguenti considerazioni: i due motivi vengono in esame congiunto per la intrinseca connessione. Nel primo motivo si deduce l'error in iudicando sulla interpretazione della natura del rapporto e della qualità del rischio assicurato, anche al fine della valutazione del nesso di causalità tra infortunio in servizio e cessazione o riduzione della capacità lavorativa. La clausola due della polizza che estendeva l'assicurazione al rischio di malattie infettive in genere a decorso acuto, escluse le tubercolari, luetiche e veneree e tumorali, riportate in servizio, nonché al rischio delle infezioni riportate in servizio e per causa del servizio, doveva essere correttamente intesa, secondo buona fede, in relazione agli effetti dell'infortunio sulla capacità lavorativa del lavoratore esposto al rischio. A tal riguardo occorreva considerare anche la valutazione medico legale data dalla Commissione militare e dall'ente preposto agli infortuni su lavoro. Si assume, per valutare la buona fede nella condotta tra le parti che la impresa assicuratrice, al momento della stipula del contratto (1976) ben conosceva le condizioni di salute e di esposizione ai rischi della infermiera, già assicurata sin dal 1962, e che dunque in sede di valutazione di consulenza medica la situazione biologicamente compromessa preesistente era nota e non era stata sottaciuta, e dunque il nesso di causalità doveva essere considerato tra la presenza di una malattia o infezione contratta in servizio ed il danno patrimoniale consequenziale relativo alla perdita della capacità lavorativa e delle possibilità di continuare il lavoro.
Nel secondo motivo il medesimo errore di interpretazione giuridica e del rischio assicurato, viene in evidenza come vizio della motivazione su punti essenziali. Tali punti sono sostanzialmente indicati nello accertamento in concreto della contrazione in servizio delle malattie infettive e dei loro esiti incidenti sulla capacità lavorativa, e sulla illogicità delle conclusioni dell'elaborato peritale, condivise dalla Corte che, contraddicendo il fine causale del contratto e la delimitazione del nesso di imputazione oggettiva, ha ritenuto esistenti gli infortuni, esistenti le malattie, esistenti le conseguenze impeditive della attività lavorativa, per poi dedurre che "ai fini dello accertamento delle condizioni (contrattuali) non assumono rilievo le conseguenze provocate dagli infortuni ancorché coperti da garanzia".
I motivi così riassunti appaiono inscindibilmente connessi in relazione ad una serie di problemi giuridici che la Corte di appello, dopo essere finalmente entrata nell'esame del merito, non ha saputo prospettare, appiattendosi sulla insoddisfacente consulenza medico legale. Ed in vero il primo ineludibile problema era quello di esaminare la natura del contratto di assicurazione contro gli infortuni, quindi di procedere all'esame delle varie clausole, inclusa quella detta articolo 2 (come condizione generale allegata alla polizza del dicembre 1976) onde evidenziarne la connessione logica e la interpretazione secondo buona fede per la copertura del rischio. La Corte ha invece adottato una metodologia espositiva non interpretativa, limitandosi ad espungere dal testo del contratto, la clausola due, che ha riprodotto per esteso nella motivazione (ff. 7), senza darne alcuna interpretazione. Ed in vero dalla stessa lettura della clausola era evidente la sua complessità ed ambiguità, per cui non poteva valere la regola della semplice lettura (in claris non fit interpretatio). La clausola infatti apparentemente estende il rischio malattia (posto che in realtà esclude la tubercolosi ed i tumori in un soggetto ad elevato rischio di contagio), per poi porre due condizioni che lo restringono sino quasi a rendere scarsamente utile la funzione o la ragione del contratto, che, secondo la dottrina, è a disciplina eminentemente convenzionale o atipica.
La prima condizione è che la malattia od infezione determini una invalidità permanente di tale gravità da determinare obbiettivamente la risoluzione del rapporto di lavoro. La seconda condizione è che l'infortunato non debba poter svolgere alcuna altra proficua attività lavorativa. Sia la Commissione medica militare sia l'ente previdenziale hanno accertato la perdita totale della capacità lavorativa specifica, non così il medico legale. La Corte evitando di dare la qualificazione giuridica del rapporto in relazione alle caratteristiche analoghe a quelle dei rischi del ramo danni o del ramo vita, evita di esaminare sistematicamente la funzione della clausola delimitativa che si trova nelle condizioni generali, poste al di fuori della polizza e che potrebbe assumere valore di clausola vessatoria ai sensi del secondo comma dell'art. 1341 c.c. in quanto diretta a limitazioni di responsabilità, proprio in relazione alla natura del contratto ed al suo equilibrio sinallagmatico. Essendo il contratto anteriore alla legge di derivazione europea 6 febbraio 1996 n. 52 che inserisce il capo XIV bis nel libro quarto del codice civile, ed un nuovo regime di clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, nei quali sono da includersi i contratti in questione, essendo la impresa assicurativa equiparata alla parte forte e la persona fisica al consumatore del servizio assicurativo, non è possibile, per la irretroattività della normativa europea, applicare la disciplina delle clausole vessatorie che, malgrado la buona fede determinano a carico del consumatore (nella specie l'assicurato persona fisica) un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto (argomenta da art. 1469 bis primo comma del codice civile), ma è possibile, oltre che doverosa, la interpretazione del contratto secondo buona fede (art: 1366 c.c.) in presenza di clausole ambigue e per di più predisposte in condizioni generali unilaterali dalla parte forte (la impresa). Da questa incompleta ed insoddisfacente valutazione, che non tiene conto né della natura del rapporto, né della sua prevalente atipicità, né dell'equilibrio causale al fine della interpretazione di buona fede, la Corte passa direttamente all'esame della consulenza tecnica, senza risolvere il problema pregiudiziale delle condizioni di salute del soggetto assicurato, come soggetto esposto ad alto rischio e già in parte biologicamente compromesso (come risulta dall'elenco delle precedenti malattie, descritto dal CTU). Il ragionamento della Corte è ancora una volta acritico e neutrale, dapprima (ff. 8 della motivazione) descrive le sette infermità di cui è affetta l'infermiera al momento del controllo del consulente medico legale, poi ne scarta tre (discopatia, anemia e tubercolosa polmonare) le prime due perché anteriori al contratto e la terza perché esclusa dal contratto, e quindi considera le malattie superstiti (insufficienza cardiaca, blocco della branca sinistra, polinevrite e miosite) come comportanti una invalidità permanente, ma non tali da determinare la necessità di risolvere il rapporto di lavoro e tanto meno la impossibilità di svolgere qualsiasi altra attività relativa. Dove il ragionamento della Corte, che per la prima volta esamina il nesso di causalità tra l'evento di danno assicurato (malattia per causa di servizio) e l'effetto sulla persona del lavoratore, non sulla base della situazione concreta di salute biologica all'atto della stipula, ma in relazione ad una situazione ideale (per lo assicuratore) di una persona perfettamente sana e non già esposta ai rilevanti rischi di lavorare in un settore esposto alla cura di malattie infettive. Come ha rilevato questa Corte (Cass, 27 luglio 2002 n. 10292) la disciplina delle dichiarazioni inesatte o reticenti prevista dagli articoli 1892 e 1893 del codice civile, attenendo alle disposizioni generali della assicurazione, è applicabile sicuramente all'assicurazione contro gli infortuni, essendo a tal fine irrilevante se questa ultima rientri nella assicurazione contro i danni ovvero costituisca una forma di assicurazione della vita. Ma, nel caso di specie, la rilevanza della natura è decisiva al fine della interpretazione delle clausole, mentre è singolare che l'impresa per tutto il giudizio di merito non abbia mai eccepito le inesattezze o le reticenze dell'assicurato, e ciò per la buona ragione che, sulla base della clausola limitativa, si riservava di non pagare il premio, a malattia sopravvenuta. Pertanto la stessa esatta formulazione dei quesiti peritali e quindi delle risposte peritali dipendeva dalla risoluzione della natura del rapporto e dalla interpretazione secondo buona fede nel sistema delle clausole e dalla ragione del contratto. Se vale il principio che il rischio è assicurato in relazione al previo accertamento delle condizioni biologiche di salute di un lavoratore già esposto a rischio e se questo rischio si aggrava a tal punto che il datore di lavoro o lo stesso lavoratore risolve il rapporto e che lo stesso ente previdenziale accerta con propri medici o con medici neutrali (le commissioni militari) tale aggravamento, menomante in modo grave la capacità lavorativa specifica, non si vedono le ragioni (se non quelle di dimostrare la erroneità delle altre valutazioni di medici esperti nel campo delle patologie professionali) per le quali il consulente d'ufficio consideri la persona del lavoratore come quella di una merce pregiata, da cui detrarre le menomazioni biologiche preesistenti, che ai sensi della regola causale complessa di cui allo art. 41 del codice penale, applicabile alla fattispecie del cd. danno biologico da infortunio, costituiscono cause preesistenti o simultanee che non escludono il rapporto di causalità tra malattia o infezione per causa di servizio ed evento di danno come perdita della capacità lavorativa. Tale evento deve essere valutato in concreto, in relazione alle malattie ed infezioni sopravvenute che, aggravando le condizioni di salute che il soggetto lavoratore assicurato aveva al tempo del contratto, producano la rilevante perdita della sua capacità produttiva con effetti negativi sulla prosecuzione del rapporto di lavoro. Pertanto sussiste sia l'error in iudicando in relazione all'interpretazione logico sistematica e di buona fede delle clausole contrattuali, inclusa quella delimitativa della responsabilità in relazione al catalogo dei rischi assicurati o esclusi, esiste una omessa interpretazione della natura della polizza (cfr. Cass. SU 10 aprile 2002 n 5119 che prospetta i criteri selettivi in relazione al regime applicabile ed alla compatibilità con il prevalente regime convenzionale, decisione che tuttavia si riferisce ai contratti anteriori alla entrata in vigore dei decreti legislativi di attuazione delle direttive europee 17 marzo 1995 n. 174 e 175, che nelle tabelle allegate indicano chiaramente le classificazioni per ramo e le assicurazioni complementari, riordinando la molteplicità delle assicurazioni ramo vita e ramo danni alla persona), ed esiste il vizio della motivazione, insufficiente e contraddittoria sul nesso di causalità, apparendo assurda ed incomprensibile la motivazione che lo esclude in relazione ai fini dello accertamento della cessazione o riduzione della attività e capacità lavorativa, con un giudizio ex ante che non considera le reali condizioni fisiche del lavoratore all'atto in cui venne stipulato il contratto e senza che siano state poste in evidenza dichiarazioni inesatte o reticenti. All'accoglimento del ricorso segue la cassazione con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma che si atterrà ai principi di diritto come sopra enunciati e provvederà anche per le spese di questo giudizio di cassazione secondo le regole della soccombenza.
P.Q.M
Accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Roma 19 gennaio 2004.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 GIU. 2004.