CORTE D’APPELLO DI TORINO, sez. I, 1° marzo 2005
Pres. Gamba - Rel. Dorigo - San Paolo IMI s.p.a. (Avv. Cavalli) c. Codacons (Avv. ti Donzelli, Sorrento) - Consumatori e utenti - Contratti bancari - Interessi - Capitalizzazione trimestrale - Somme indebitamente percepite - Restituzione - Rifiuto della banca - Illegittimità - Accertamento giudiziale – Inammissibilità (Art. 1283 c.c.; d.lgs. 1° settembre 1993 n. 385; art. 120 t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia; art. 3 l. 30 luglio 1998 n. 281; art. 25 d. lgs. 4 agosto 1999, n. 342)
L’art. 3 l. n. 281/98 non prevede la possibilità di adottare pronunce di accertamento della illegittimità di determinate condotte, ma consente soltanto di emettere inibitorie destinate ad incidere immediatamente e concretamente su di esse, impedendone la prosecuzione e rimediando agli esiti negativi derivatine ai consumatori o utenti di un servizio.
… Omissis …
Motivi della decisione
Mediante la prima doglianza, la difesa dell’appellante lamenta (citaz., p. 3 ss.) la “inammissibilità ed irritualità della domanda di accertamento accolta” dal Tribunale,
evidenziando che la pronuncia da questo emessa («una declaratoria d’illegittimità del rifiuto, da parte del San Paolo Imi, di riconoscere di diritto della clientela alla restituzione delle somme addebitate a titolo d’interessi anatocistici») «non rientra assolutamente fra quelle che possono venire richieste dalle associazioni di consumatori
ai sensi della … disposizione dell’art. 3 l. n. 281/98 e che il giudice ha il potere di emettere sulla scorta della menzionata normativa».
A suo dire, considerata la reale portata della «formula utilizzata dal Tribunale, appare evidente come la sentenza si risolva in un provvedimento che dichiara tenuto il San Paolo Imi a restituire a tutti i propri clienti gli interessi anatocistici: il dire che è illegittimo un comportamento negativo (il rifiuto di restituire) si risolve infatti, inevitabilmente, nell’affermazione di doverosità di una condotta positiva (la restituzione). Se è così, peraltro, riesce chiaro come la declaratoria in parola non contenga un ordine di non facere, tipico dell’inibitoria, poiché un’ipotetica inibizione di un rifiuto si tradurrebbe nell’imposizione di un assenso, e neppure rappresenti, per altro verso, una misura idonea a correggere od eliminare presunti effetti dannosi per i consumatori».
Per valutare la fondatezza della censura, è necessario prendere le mosse dal testo della norma richiamata, che così recita: «le associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell’elenco di cui all’art. 5 sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi, richiedendo al giudice competente: a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure
locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate”.
Orbene, il Tribunale (sent. p. 40), enucleate nella principale domanda attorea due diverse istanze, ha ritenuto senza incertezze che non fosse accoglibile la seconda perché, «avendo ad aggetto l’inibizione di un comportamento omissivo della banca, si risolve, ovviamente, in una richiesta di condanna della stessa al rimborso delle somme indebitamente percepite»; ed, inoltre, per la sua assoluta genericità, «mancando uno specifico petitum, che abbia un contenuto più ampio e diverso dal concreto rimborso, che può essere oggetto solo di un diritto personale dei singoli utenti».
Diversamente, lo stesso ha riconosciuto la prima istanza, «di accertamento dell’illegittimità del comportamento della banca … senz’altro ammissibile ed accoglibile, considerata l’esistenza dell’interesse collettivo degli utenti del servizio bancario… e la funzione dell’associazione attrice di tutela di tale interesse».
Ed è significativo che, nell’analizzare la prima domanda attorea, il G.U. abbia logicamente invertito l’ordine dato alle due istanze in essa enucleate, di cui - nella formulazione testuale (evidentemente ‘forzata’ dal Codacons al fine di dimostrare l’aderenza al dettato normativo) - quella di «inibire alla banca convenuta la prosecuzione del comportamento illecito e lesivo dei diritti dei consumatori» precedeva invece l’altra, di natura chiaramente preliminare («dichiarare illegittimo il rifiuto dell’istituto di credito al riconoscimento del diritto della propria clientela alla restituzione delle somme indebitamente percepite in base alla clausola contrattuale della capitalizzazione degli interessi debitori…»), in quanto diretta a descrivere la condotta ritenuta dannosa alle posizioni dei correntisti e, quindi, tale da giustificarne l’inibizione mediante apposito provvedimento.
Tale aspetto non è sfuggito all’attenzione dell’appellante, la quale così l’ha puntualizzato (citaz., p. 6 s.): «non è un caso, a ben vedere, che lo stesso Codacons non abbia, in realtà, richiesto una pronuncia di mero accertamento quale emanata dal Tribunale. La prima domanda di cui all’atto di citazione avversario è, infatti, del seguente tenore: “Inibire alla banca convenuta la prosecuzione del comportamento illecito e lesivo dei diritti dei consumatori e, per l’effetto, dichiarare illegittimo il rifiuto dell’istituto di credito al riconoscimento del diritto della propria clientela alla restituzione delle somme indebitamente percepite…” La declaratoria d’illegittimità quale ex adverso richiesta, pertanto, si configura come accessoria e consequenziale alla domanda inibitoria: senza quest’ultima, la prima appare del tutto sprovvista di un proprio autonomo ubi consistam giuridico ».
La stessa ha parimenti ritenuto «inaccettabile l’artificiosa “scomposizione” della domanda del Codacons operata dal Tribunale», peraltro osservando che «oggetto della richiesta attorea è - né potrebbe essere altrimenti, in base all’art. 3, l. n. 281/98 - l’ordine di inibire la prosecuzione di un comportamento asseritamente illecito, rispetto al quale la declaratoria di illegittimità si colloca in posizione, per così dire, ancillare, ciò che impedisce al Giudice di considerarla come domanda a sé stante (e, dunque, di decidere in proposito) una volta che, come correttamente è stato fatto dal Tribunale, si reputi inammissibile la richiesta d’inibitoria»: e ne ha tratto «un ulteriore elemento che porta a ritenere integralmente inammissibile l’azione avversaria».
Ecco che, sia pure in termini non coincidenti con quelli sopra espressi dal Collegio, anche la difesa dell’Istituto bancario ha colto la ‘dissonanza’ e l’anomalia della pretesa fatta valere, nel presente giudizio, dall’ente esponenziale, giungendo alla conclusione di ritenerne precluso l’esercizio.
Ciò posto, risulta corretto l’ulteriore rilievo formulato dall’appellante, secondo cui (citaz., p. 5) «alla statuizione del Tribunale non appare possibile riconoscere altra portata se non quella di un provvedimento meramente dichiarativo, che travalica i limiti imposti dalle … disposizioni della legge» n. 281, onde «sotto questo profilo, … la decisione gravata» dev’essere considerata «del tutto irrituale».
In effetti, la chiara elencazione contenuta nella norma riportata non contempla la possibilità del Giudice di emettere pronunce di carattere dichiarativo, se non come premessa indispensabile - e ad essa strettamente collegata, ma senza assumere un rilievo autonomo – della pronuncia inibitoria (impiegata, appunto, per vietare condotte riconosciute ‘lesive degli interessi’ di categorie di utenti o consumatori). Ma, una volta ritenuta non adottabile una sentenza di natura inibitoria, viene meno a fortiori ogni possibilità di emettere comunque un provvedimento meramente dichiarativo.
A chiarimento del proprio assunto, l’appellante aggiunge: «questa irritualità trova puntuale conferma nell’intentio legis quale si ricava dal tenore della legge n. 281/98, se è vero, come è vero, che il legislatore ha inteso, con tale provvedimento, attribuire alle associazioni consumieristiche una gamma, ampia ma tassativa, di strumenti capaci d’incidere in via immediata e diretta, ove ne ricorrano i presupposti (e non è questo il caso), sui comportamenti lesivi degli interessi diffusi dei consumatori, presupponendo che la condotta illecita possa considerarsi tale, per le sue caratteristiche oggettive, nei confronti di una pluralità di posizioni giuridicamente omogenee, suscettibili di unitaria ed indifferenziata tutela », senza operare distinzioni; e conclusivamente osserva: «la pronuncia impugnata, al contrario, risulta completamente slegata da tale situazione di base e da tale finalità, rappresentando nulla più che una ‘dichiarazione di principio’ circa l’illegittimità dell’anatocismo bancario».
1.2. - Nel dedurre, invece, l’infondatezza della doglianza, il Codacons offre - anzitutto - un utile inquadramento del nuovo corpus normativo in questione (comp. risp., p. 4: «il principale testo della disciplina consumeristica, la legge 281/1998, è il risultato di una acquisita coscienza di protezione del consumatore, in grado di indirizzare le imprese verso una più attenta considerazione di chi usufruisce dei beni e servizi immessi sul mercato e, al contempo, rappresenta uno strumento per gli enti esponenziali maggiormente rappresentativi sul territorio nazionale e dotati di una struttura stabile, per
forme di tutela più rapide ed efficaci degli interessi collettivi di cui sono portatori», svolgendo alcune considerazioni del tutto condivisibili.
Così, è indubbio che (comp. risp., p. 5 s.) l’iscrizione all’Albo delle associazioni dei consumatori e degli utenti, subordinata (v. art. 5) alla sussistenza di «requisiti particolarmente rigorosi», rappresenta «un riconoscimento legale ed incontestabile … del fatto che l’associazione sia un soggetto effettivamente rappresentativo degli interessi
dei consumatori e degli utenti».
La legge n. 281, invero, «è strumento normativo di carattere generale, con cui sono affermati i diritti fondamentali dei consumatori (art. 1); vengono riconosciute e supportate le loro forme di rappresentanza (art. 5); istituzionalizzate la legittimazione processuale delle associazioni di consumatori e le forme e i modi in cui essa può realizzarsi;
nonché i risultati ottenibili» (art. 3). Inoltre, «le finalità dichiarate dal legislatore, di garantire e riconoscere “i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori”
e la loro “tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa”, trovano attuazione nelle disposizioni che regolano la legittimazione ad agire delle associazioni riconosciute», e fra queste il Codacons, iscritta nell’elenco previsto dalla legge, cui è attribuita «una legittimazione autonoma … fondata su posizioni giuridiche diverse, seppure correlate, da quelle individuali riconosciute ai consumatori ai sensi dell’art. I della l. n. 281/98» (come ritenuto anche dal Tribunale:
sent., p. 38).
L’appellato, ancora, per dimostrare la fondatezza della propria iniziativa giudiziaria, valorizza (comp. risp., p. 7) una considerazione svolta in argomento dal G.U. nei seguenti termini (sent., p. 39): «nel presente caso, … si osserva che la violazione, sistematicamente, da parte delle banche - compreso il convenuto San Paolo – dei divieti di anatocismo (come emerge dalla raccolta documentale n. 2 prodotta dall’attore) comporta la sussistenza di un interesse alla cessazione di tale violazione, riconducibile alla generalità della categoria degli utenti del servizio bancario»; e rileva come, «conformemente a quanto sostenuto dalla dottrina specialistica», sia stato correttamente dichiarato che «l’azione collettiva dell’associazione si configura come una misura aggiuntiva e non sostitutiva dei tradizionali rimedi già concessi dall’ordinamento giuridico a tutela dei diritti soggettivi individuali».
A questo punto, finalmente, il Codacons esplicita e svolge gli argomenti destinati a contrastare in modo specifico l’impugnazione avversaria, ma senza essere minimamente
convincente.
Il primo di essi (comp. risp., p. 7), infatti, riassume genericamente il discorso sull’esistenza, nella fattispecie, della propria legittimazione ad agire in giudizio e sulla
portata della principale domanda rivolta all’A.G., ma senza rapportarla alle peculiari formule contenute nel testo dell’art. 3 citato («appaiono, pertanto, prive di pregio le eccezioni di controparte sulla inammissibilità della domanda che, al contrario, trova proprio nel riconoscimento dell’associazione ex L. 281/98 - peraltro, mai neppure contestato - il fondamento normativo del suo agire per il raggiungimento delle finalità previste dalla stessa legge e coincidenti con gli obiettivi statutari dell’ente. L’Associazione, in buona sostanza, ha chiesto al giudice di valutare il comportamento della banca convenuta, di accertarne la illegittimità e di adottare provvedimenti utili al fine di far cessare il comportamento lesivo denunciato, in perfetta coincidenza con le previsioni del legislatore del 1998»).
Il secondo, poi, insiste (ivi, p. 8 s.) sull’inequivocabile presenza, nel comportamento tenuto dai vertici dell’istituto di credito avversario, della lesione dell’interesse collettivo alla promozione ed alla tutela degli interessi dei consumatori ed utenti, ponendo in risalto sia la mancata risposta alla diffida appositamente inoltrata dal Codacons il 23 aprile 2001 ai sensi dell’art. 5 l. n. 281/98 (doc. 3 di primo grado), sia il contenuto delle
lettere di diniego inviate ai singoli utenti che chiedevano il rimborso degli interessi anatocistici dallo stesso percepiti, manifestante la convinzione di non dover tenere in alcuna considerazione la nuova giurisprudenza formatasi in materia e l’intenzione di resistere ad eventuali pretese azionate in sede giudiziaria «in tutti i gradi, ove ciò sia necessario…». Neanche sotto tale profilo, dunque, è posta in discussione la palese irritualità della decisione, come lamentata dalla banca.
Il terzo argomento affronta il tema sul piano interpretativo della disposizione in esame, di cui cerca di estendere
l’ambito (ivi, p. 9 s.: «la stessa formulazione legislativa della norma, la ratio ed i principi comunitari cui si ispira la L. 281/98 depongono, come ha già avuto modo di esprimersi anche la giurisprudenza [di merito], in senso assolutamente contrario alla asserita tipicità delle domande giudiziali esperibili dall’ente collettivo (v. Tribunale di Torino … ord. 16 maggio 2002 [del cui testo nulla è riportato]), anche attingendo spunti da opinioni esposte dalla dottrina (“… l’art. 3 l. 281/98 affida al giudice strumenti più flessibili e, se possibile, più invasivi…”; “in realtà, l’espressa previsione di misure atipiche con finalità riparatoria induce necessariamente a ritenere che la norma disciplina uno strumento di tutela rimesso in un certo senso alla discrezionalità del giudice, ponderata sul parametro delle misure: una tecnica legislativa che consente la migliore adattabilità della decisione al caso concreto”; “il giudice rimane libero di attribuire alla propria decisione il contenuto ritenuto di volta in volta idoneo al raggiungimento degli obiettivi positivi dell’azione e non è rigidamente vincolato alle specifiche richieste degli enti esponenziali. La legge gli riconosce un potere di formazione della regola di diritto applicabile al caso concreto secondo un modello già noto al sistema codificato dei provvedimenti d’urgenza”).
Senonché, le espressioni ora riportate non consentono, nella loro ampiezza e genericità, di ritenere che l’art. 3 cit. permetta al Giudice di assumere provvedimenti di natura diversa dai tre tipi in esso così accuratamente elencati. Si può certamente ammettere che il legislatore, per rendere più efficace le decisioni dei Tribunali, non abbia voluto ‘codificare’ in formule ancor più specifiche le disposizioni da essi adottande dinanzi alle richieste degli enti esponenziali; ma appare indubbio che, secondo la dizione della lett. a) della norma, il provvedimento dovrà rivestire sicuramente un contenuto inibitorio (attuabile, è ovvio, con modalità diverse e meglio adatte ad ogni singolo caso) e, secondo quella della successiva lett. b), esso dovrà comportare l’adozione delle misure (certamente variabili, e non catalogabili a priori) utili per ripristinare la precedente situazione, rimuovendo gli effetti negativi delle violazioni accertate.
Al riguardo, è condivisibile l’affermazione che il Codacons (conclus., p. 4) trae dalla dottrina, secondo la quale «il Giudice adito potrà ritenere la richiesta dell’associazione
[come concretamente articolata] quale misura idonea ex art. 3 lett. b), oppure discrezionalmente individuare egli stesso il contenuto della propria decisione ritenuto più idoneo per il raggiungimento dello scopo».
Anche nell’ambito della previsione della lett. c) sono prospettabili plurime forme di attuazione dell’ordine di pubblicazione del provvedimento (aspetto comunque immancabile), lasciandosi al Giudice la scelta del o dei quotidiani nazionali o provinciali in cui far apparire l’inserzione e la determinazione del contenuto di questa,
per perseguire le identiche finalità di rimediare agli effetti dannosi della violazione. Si pensi, per esempio, al caso di immissioni nocive nell’atmosfera o nelle acque pubbliche; alla commercializzazione di prodotti dannosi per la salute; alla diffusione - eseguita anche per mezzo del telefono - di messaggi pubblicitari suggestivi od ingannevoli, con contemporanei effetti di disturbo arrecato agli utenti: è evidente che si dovranno studiare e decidere le misure dirette ad impedire simili comportamenti in termini di rapidità temporale, massima estensione sul territorio interessato ed efficacia quanto più
capillare possibile. Ma non fino al punto di ritenere consentiti tipi di pronunce estranee alle tre categorie fondamentali indicate nell’art. 3.
Non è sufficiente sostenere, con l’appellato, che (comp. risp., p. 10) «il Giudice di prime cure, quindi, ritenuto “senz’altro lesivo” degli interessi dei consumatori ed utenti del servizio bancario il denunciato comportamento della convenuta, ne ha accertata l’illegittimità e, ritenendo sufficiente, [fra le] ‘misure idonee a correggere e/o eliminare gli effetti dannosi’, l’ordine di pubblicazione, ha respinto, anche per motivi processuali, le altre domande proposte dall’associazione»; proprio perché il riportato art. 3 non contempla la possibile adozione di pronunce di accertamento dell’illegittimità di determinare condotte (tipica del processo contenzioso ordinario), ma soltanto ‘inibitorie’ destinate ad incidere subito concretamente su di esse, impedendone la prosecuzione e rimediando agli esiti negativi derivatine ai consumatori od utenti di un servizio; né permette di identificare in toto l’ordine di pubblicazione del provvedimento,
adottabile ai sensi della lett. c), con le ‘misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate’, previste sotto la ben distinta lett. b) della stessa disposizione.
Né vale sottolineare che (ivi, p. 11) «in ogni caso il monito del Tribunale alla convenuta San Paolo IMI ed in generale alle banche è inequivoco», atteso il tenore dell’ultima parte del provvedimento impugnato (sent., p. 42: «la richiesta di pubblicazione della sentenza … su dei quotidiani può contribuire, in questo caso, come richiesto dall’art. 3 della l. 281/98…, a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate, portando a conoscenza delle banche l’accertamento della illegittimità del loro rifiuto di riconoscimento dei diritti dei clienti al rimborso delle somme percepite dall[e] banc[he] in violazione del divieto di anatocismo e la conseguente sussistenza del loro obbligo di procedere appunto a tali rimborsi»). La statuizione con cui è disposta la pubblicazione della sentenza non presenta, nella fattispecie, alcuna autonomia, essendo destinata a diffondere la notizia della disposta inibizione e/o adozione di idonee misure mediante i provvedimenti previsti nelle lettere precedenti e soltanto in esse.
1.3. - Ma vi è di più.
Come fondatamente osservato dall’appellante (citaz., p. 5 s.), «per un verso, l’assenza nel nostro ordinamento della regola dello stare decisis impedisce di considerare detta sentenza alla stregua di un precedente vincolante (non lo sono neppure, notoriamente, gli arrets della Cassazione!), sicché ogni giudice, tanto di pari grado quanto - a fortiori - di grado superiore, è perfettamente libero di discostarsene. Per altro verso, il fatto che la
legge, al ridetto art. 3, non menzioni (con ciò implicitamente escludendole) azioni di mero accertamento, è del tutto coerente con l’ineludibile necessità di verificare caso per caso l’effettiva violazione dei diritti dei singoli consumatori [in seguito ad un’azione che sia esperita dal singolo consumatore, in relazione ad un singolo contratto; repl., p. 2]. Con la declaratoria in questione, invece, il Tribunale ha ritenuto possibile prescindere dalle peculiarità dei rapporti fra la banca ed ogni correntista, laddove, in realtà, ognuno di essi presenta – né potrebbe essere altrimenti - altrettanti specifici problemi (quali, ad esempio, la prescrizione del credito, il riconoscimento del debito, l’esistenza di versamenti eseguiti in adempimento di contratti autonomi di garanzia):
problemi tutti che devono essere, giocoforza, risolti individualmente».
La stessa, anzi, enuncia un ulteriore effetto negativo - innegabile - derivante dal tipo di domanda proposta dal Codacons (citaz., p. 6): «la pretesa di sottrarsi surrettiziamente
per questa via, all’accertamento delle peculiarità di ciascuna fattispecie (accertamento che, al contrario, avviene in ogni giudizio instaurato, in tal caso sì ritualmente, dai singoli correntisti), non può trovare accoglimento, pena, a tacer d’altro, la lesione del diritto di difesa della banca, che solo in relazione a contestazioni specifiche mosse da un proprio cliente è in grado di articolare in modo compiuto le proprie difese».
Donde l’esatto rilievo conclusivo dell’appellante, secondo cui (citaz., p. 7 ss.) «l’inammissibilità ed irritualità della declaratoria in questione si traduce, in definitiva,
in una generale carenza d’interesse, da parte del Codacons, all’accoglimento di tale domanda. Invero, è la stessa pronuncia impugnata a riconoscere che “l’interesse collettivo degli utenti del servizio bancario” (p. 40) consiste nell’interesse alla cessazione della – pretesa - violazione del divieto d’anatocismo (p. 39)», così consentendo di cogliere «la manifesta inidoneità di una declaratoria siffatta a perseguire l’obiettivo di cui trattasi». Invero, «l’interesse fatto valere con l’azione in oggetto non è qualificabile, come invece dovrebbe essere, alla stregua di un interesse diffuso non azionabile individualmente.
L’interesse di specifici individui a vedere dichiarata l’illegittimità della pratica anatocistica ed a riavere quanto asseritamente corrisposto in più rispetto al dovuto, infatti, non può assurgere - neppure attraverso la più spregiudicata operazione ermeneutica - al rango d’interesse collettivo in senso proprio. L’iniziativa avversaria
è innegabilmente diretta, in ultima analisi, al ristoro di un pregiudizio di natura prettamente patrimoniale e, pertanto, alla tutela di un interesse strettamente personale dei singoli utenti, di cui essi soltanto – in assenza di una norma legittimante la sostituzione pro-cessuale ex art. 71 c.p.c. - possono chiedere la tutela giudiziale».
Interessante anche l’ulteriore rilievo dell’appellante, che indica il percorso lungo il quale si potrebbe efficacemente esperire l’azione in esame: «l’unica richiesta ammissibile, in base all’art. 3 l. n. 281/98, sarebbe consistita nel richiedere l’inibitoria dell’utilizzo della clausola
di capitalizzazione trimestrale degli interessi per l’avvenire dal momento che rientra senz’altro tra le facoltà delle associazioni inserite nell’elenco di cui all’art. 5 della predetta legge l’instaurazione di azioni giudiziali volte ad inibire l’impiego di clausole contrattuali che l’associazione ritenga, a torto od a ragione, illegittime.
Senonché, tale domanda non avrebbe avuto ragion d’essere, dal momento che la banca esponente (come, del resto, tutto il sistema bancario), in conformità a quanto disposto dall’art. 25 della l. n. 342/99 e dalla successiva delibera CICR [in data 9 febbraio 2000, efficace dal 22 aprile 2000] ha da tempo eliminato dalla propria modulistica contrattuale la previsione della capitalizzazione trimestrale degli interessi, provvedendo altresì ad adeguare le condizioni dei rapporti in corso d’esecuzione. Ben consapevole di tali limitazioni sul piano delle domande esperibili, il Codacons ha cercato, con l’irrituale azione di cui è causa, di aggirare l’ostacolo: ma l’escamotage è scoperto e non può avere successo ».
Neppure è trascurabile l’ultima considerazione della Banca, secondo cui (citaz., p. 9) la statuizione del Tribunale (dichiarativa della «illegittimità del rifiuto della convenuta - al riconoscimento del diritto della propria clientela alla restituzione delle somme indebitamente percepite») contrasterebbe anche sotto un altro profilo
con il disposto dell’art. 3 della l. n. 281/98, poiché questa «consente l’instaurazione di giudizi volti esclusivamente alla tutela degli interessi dei consumatori e non anche di soggetti (persone giuridiche, imprenditori, ecc.) che non siano riconducibili a tale categoria». Al contrario, la decisione impugnata «si riferisce, impropriamente, a tutta la clientela della banca (rispetto alla quale il Codacons è una volta di più privo di legittimazione attiva), anziché soltanto a quei correntisti che rivestano la qualifica di consumatori». Essa, infatti, trae fondamento dalla definizione contenuta nel precedente art. 2, che inserisce nella categoria dei «consumatori e utenti» soltanto «le persone fisiche che acquistino o utilizzino beni o servizi per scopi non riferibili all’attività imprenditoriale e professionale eventualmente svolta».
1.4. - Contro simili rilievi, la difesa dell’appellato ha cercato di addurre altre considerazioni critiche.
La prima di esse (conclusion., p. 5), basata sull’art. 27 della l. n. 383/2000 (dedicata alla ‘Tutela degli interessi sociali e collettivi’), secondo cui le associazioni di promozione
sociale, come il Codacons, «sono legittimate: a) a promuovere azioni giurisdizionali e ad intervenire nei giudizi promossi da terzi a tutela dell’interesse dell’associazione; b) ad intervenire in giudizi civili e penali per il risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di interessi collettivi concernenti le finalità perseguite dall’associazione; c) a ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti lesivi degli interessi collettivi concernenti le finalità di cui alla lettera b)», nega che vi sia «spazio, quindi, per ridurre l’esperibilità e la portata dell’azione collettiva ad una regolamentazione contrattuale, come vorrebbe l’appellante …, perché tale limitazione sarebbe in palese contrasto con le finalità delle leggi richiamate e finirebbe per frustrare
l’efficacia di tutela dell’interesse collettivo di cui è portatore il Codacons».
Ma si tratta di una considerazione palesemente ininfluente, intanto perché l’azione esperita da detta associazione è fondata solo sulle previsioni della l. n. 281/98, come emerge chiaramente dal tenore delle richieste formulate con l’atto introduttivo (citaz., p. 11: «inibire alla banca … la prosecuzione del comportamento illecito …; per l’effetto, ordinare alla banca … di procedere al ricalcolo degli interessi debitori con conseguente storno e/o rimborso …; ordinare la pubblicazione del … provvedimento …») e dall’espresso richiamo all’art. 3 di tale legge (ivi, p. 9 s.), onde non è certamente ammesso un mutamento di causa petendi in grado d’appello (art. 345, 1° comma, c.p.c.) con riferimento ad altre norme mai prima menzionate.
Privo di rilievo, dunque, il corollario che l’appellato intende trarne (conclus., p. 5 s.: «le norme richiamate generalizzano la tutela inibitoria, così conformandola alla normativa comunitaria, ammettendola non solo in presenza di violazioni specifiche e nei confronti di atti, ma anche rispetto a comportamenti lesivi così favorendo una tutela a trecentosessanta gradi dei consumatori ed utenti, diversa da quella prevista dal codice civile in materia di clausole abusive [art. 1469-bis e segg.], subordinata … all’esistenza di un regolamento contrattuale».
Inoltre, perché - lo riconosce pure l’appellante (repl. p. 1 s.) - è innegabile che «l’azione del Codacons abbia come riferimento una clausola contrattuale (… quella relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi) », mentre «le azioni esperibili da un’associazione di consumatori non hanno e non possono avere portata individuale riferita ai singoli rapporti contrattuali», onde il G.U. «non avrebbe potuto emettere un provvedimento che … dichiarasse tenuto il San Paolo Imi a restituire a tutti i propri clienti gli interessi anatocistici e finalizzato, pertanto, al ristoro di un pregiudizio di natura prettamente patrimoniale».
Sottolinea, ancora, il Codacons (conclus., p. 6 s.) come il legislatore, introducendo nell’aprile 2002 una «regolamentazione che ha inteso rafforzare gli strumenti volti a rendere efficaci le azioni delle organizzazioni rappresentative degli interessi collettivi dei consumatori» («con la modifica apportata alla legge 281/98 dall’art. 11 della L. 39/2002 sono [state] espressamente sanzionate le inadempienze dei destinatari dell’ordine bunale», prevedendosi una condanna al pagamento di una somma da 516 a 1032 euro per ogni giorno di ritardo secondo la gravità del fatto), abbia confermato che
«i provvedimenti ex art. 3 l. 281/98 non escludono l’ordine di facere (appunto, le misure idonee di cui si è detto) e, quindi, prescindono da un accertamento-valutazione delle singole clausole di un contratto»; e, conseguentemente, ritiene «pacifica l’ammissibilità di un ordine di facere, in perfetta adesione a quanto sostenuto dalla dottrina specialistica e dai Tribunali nelle prime applicazioni della norma».
Ma è agevole ribattere che la nuova legge, non potendo avere valore retroattivo (v. art. 11 c.d. preleggi del c.c.), è inapplicabile al caso di specie, onde il suo richiamo nulla può apportare a sostegno della critica in esame. Si aggiunga, con la difesa dell’appellante (repl., p. 2 s.), che «la pronuncia gravata è illegittima proprio perché si è risolta in un ordine di restituzione (e, quindi, di facere), laddove la gamma di azioni concesse alle associazioni consumeristiche, per quanto ampia, rimane tassativa e non contempla la possibilità di ordinare una condotta positiva, né può essere interpretata diversamente alla luce del regime sanzionatorio introdotto dalla novella del 3003. Del resto, l’argomento addotto da controparte, come si suol dire, prova troppo, posto che una sanzione può essere indifferentemente comminata sia in caso di mancato compimento di una condotta positiva, sia a fronte della prosecuzione di una condotta inibita ope iudicis, com’è appunto previsto dalla norma in questione».
Infine l’appellato, ammettendo (ivi, p. 7 s.) di conoscere «la non univocità del criterio adottato dai Tribunali per l’indebita capitalizzazione (se gli interessi debbano essere
ricalcolati con capitalizzazione, semestrale od annuale, o se il debito debba essere ricalcolato depurato da ogni capitalizzazione …)», nega che eventuali diversità di calcolo possano «impedire … una pronuncia sul punto da parte del Giudice investito dell’azione collettiva», pur riconoscendo - con la dottrina - che ben «possano configurarsi delle diversità in ordine al tipo di rapporto bancario tali da giustificare una diversa quantificazione del rimborso spettante ai vari clienti nei confronti della banca …». A sua dire, «la diversa quantificazione dei rimborsi individuali e le possibili contestazioni, anche giudiziali, nei confronti dei singoli clienti attengono alla successiva fase dell’ordine del Giudice e non ne pregiudicano di certo la stessa pronuncia; in altri termini, l’ordine di ricalcolo del debito, con conseguente storno e/o rimborso agli utenti delle maggiori somme addebitate per effetto dell’anatocismo (trimestrale), non soltanto è giuridicamente possibile, ma rientra nei contenuti dell’inibitoria e vale a garantirne l’attuazione».
Peraltro, il Tribunale non ha pronunciato alcuna inibitoria, ritenendo (sent., p. 40) inaccoglibile la relativa istanza, perché si risolverebbe «in una richiesta di condanna
della stessa [banca] al rimborso delle somme indebitamente percepite … del tutto generica, mancando uno specifico petitum che abbia un contenuto più ampio e diverso dal concreto rimborso, … oggetto solo di un diritto personale dei singoli utenti».
Ecco che il discorso svolto dall’appellato è privo di rilevanza ai fini del decidere, al pari del conseguente rilievo secondo cui (conclus., p. 8), «a ben vedere, quindi, la decisione impugnata appare viziata nella parte in cui nega l’accoglienza delle ulteriori domande proposte in primo grado dal Codacons», poiché questo non proposto alcun appello incidentale contro la pronuncia, così lasciando passare in giudicato la statuizione (sent., p. 42) in base alla quale «la citata legge 281/98 non prevede la legittimazione delle associazioni ad agire per ottenere il risarcimento del danno od il rimborso spettanti ai singoli consumatori ed oggetto dei loro diritti strettamente personali» (onde questi dovranno attivarsi direttamente ed individualmente per chiedere le differenze pecuniarie loro spettanti).
… Omissis …