Cassazione civile, sez. I 12/11/2008 n. 27005
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PLENTEDA Donato - Presidente -
Dott. BERNABAI Renato - Consigliere -
Dott. FITTIPALDI Onofrio - rel. Consigliere -
Dott. TAVASSI Marina Anna - Consigliere -
Dott. SALVATO Luigi - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
A.L., F.A., A.A., AM.AN.,
elettivamente domiciliati in ROMA VIA BALDO DEGLI UBALDI 66, presso
l'avvocato RINALDI VINCENZO, rappresentati e difesi dagli avvocati
AMATI ANDREA, GIORGI ANDREA, giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrenti -
contro
CASSA DI RISPARMIO DELLA SPEZIA S.P.A., in persona del Presidente pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA PIAZZA DEI MARTIRI DI
BELFIORE 2, presso l'avvocato DE PETRIS FRANCESCO, che la rappresenta
e difende unitamente all'avvocato ROCCHI GIUSEPPE, giusta procura in
calce al ricorso principale notificato;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 533/04 della Corte d'Appello di GENOVA,
depositata il 23/07/04;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/07/2008 dal Consigliere Dott. FITTIPALDI Onofrio;
udito, per i ricorrenti, l'Avvocato AMATI che ha chiesto
l'accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per il rigetto del
ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Cassa di Risparmio della Spezia chiedeva ed otteneva, dal Presidente del Tribunale della Spezia, in data 5/10/1996, un decreto ingiuntivo per l'importo di L. 344.967.986, oltre interessi, nei confronti di A.L., Am.An., A.A. e F.A., fideiussori della ORED s.r.l. per due conti correnti, in relazione agli scoperti intrattenuti da detta società con l'istituto, e ad una sovvenzione pure alla medesima società concessa.
Esponeva che la debitrice principale era stata dichiarata fallita con sentenza dell'8/11/1996 e che i garanti, benchè sollecitati a ripianarne le posizioni, non vi avevano provveduto.
Avverso il decreto in questione gli ingiunti proponevano tempestiva opposizione, denunziando: a) il mancato rispetto delle previsioni dell'art. 1938 c.c., come modificato dalla L. n. 154 del 1992, per la mancata indicazione dell'importo massimo garantito; b) la mancata previsione del tasso di interesse praticato, atteso che, nel contratto, gli accessori erano stati determinati mediante richiamo alle condizioni praticate al debitore principale; c) la eccessiva entità degli interessi concretamente applicati come sopra, che essi avevano supinamente accettato trovandosi nella condizione di soggezione psicologica derivante dalla consapevolezza del potere della Cassa - in caso di mancata stipula delle fideiussioni - di chiedere il rientro alla Ored, così determinando la fine della sua attività.
Allegavano altresì che le garanzie erano state chieste dopo la erogazione del credito alla società garantita, presumibilmente perchè la banca sapeva che le condizioni soggettive del debitore principale erano mutate in peggio, il che avrebbe dovuto precluderle la concessione di ulteriori somme a credito.
Osservavano altresì come la previsione di un importo massimo garantito, così elevato quale quello previsto nei contratti inter partes, comportasse la vanificazione delle previsioni dell'art. 1938 c.c., e chiedevano, pertanto, che le fidejussioni in discorso venissero dichiarate mille, e che, in subordine, venisse dichiarata nulla e come non apposta la clausola con la quale erano stati indicati gli interessi moratori sulle somme fidegarantite.
Si costituiva la Carispe, osservando come le fidejussioni de quibus non presentassero alcuna anomalia, che facesse ipotizzare una condizione soggettiva, anche solo in parte, perturbata dei sottoscrittori; rilevava altresì che: a) quanto ad A.L. ed a F.A., essi già si fossero costituti fidejussori della Ored s.r.l. in precedenza; b) la integrazione della garanzia era stata sollecitata allorquando un terzo garante aveva receduto dalla compagine sociale; c) conseguentemente, la stipula di nuove garanzie non trovasse causa nella consapevolezza del peggioramento delle condizioni economico - patrimoniali della società garantita.
Allegava altresì: a) come l'importo garantito fosse adeguato alla entità della esposizione del debitore principale; b) come il suo ammontare massimo fosse, ab origine, predeterminato; c) come gli interessi applicati fossero quelli correnti, per la medesima tipologia di rapporto e di cliente affidato, e come le controparti non potessero sostenere di aver ignorato il tasso di interesse loro applicato, giacchè tale dato compariva regolarmente sugli estratti del conto inviati periodicamente al cliente, ed era stato pubblicato in G.U., come previsto dalla L. n. 154 del 1992, art. 6; d) come, quando era divenuta efficace la L. n. 154 del 1992, già le fidejussioni in parola fossero state sottoscritte, e come la nuova normativa non potesse travolgere i diritti già sorti nel vigore della disciplina precedente.
Concessa, dal g.i., la provvisoria esecuzione, il Tribunale respingeva la opposizione, condannando gli opponenti alle spese.
Il primo Giudice osservava, più in particolare, come: a) nella fattispecie, non potesse trovare applicazione la normativa dettata per i "contratti del consumatore", atteso che gli opponenti avevano concluso le fidejussioni per scopi inerenti alla attività commerciale, si che difettavano della qualificazione soggettiva necessaria per la applicazione delle disposizioni invocate; b) essi fossero partecipi della compagine sociale, e in tale veste fossero presumibilmente edotti delle vicende del soggetto che avevano garantito; c) quanto al tasso di interesse applicato, le sue variazioni fossero state comunicate alla clientela mediante pubblicazione in G.U., e, nel merito non apparisse esorbitante con riferimento ai tassi praticati all'epoca dagli istituti di credito, e, comunque, la dedotta usurarietà non potesse spiegare rilievo, atteso che non si verteva in una ipotesi di usurarietà originaria (l'unica in ipotesi rilevante ai sensi della L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1); d) non si rilevassero profili di scorrettezza nel comportamento della banca, nè elementi che facessero ipotizzare la dolosa prosecuzione del rapporto pur nella consapevolezza della peggiorata condizione del debitore principale.
La pronunzia veniva impugnata dagli opponenti, che riproponevano, quali motivi di gravame, tutte le questioni sollevate nella prima fase del giudizio, deducendo: a) con un primo motivo, come, alla fattispecie dovessero applicarsi le previsioni dell'art. 1469 bis sexies c..c, perchè i fidejussori, essendo solo soci di una società di capitale, non potevano esser qualificati come imprenditori, salvo -ed a tutto concedere - il solo A.L., amministratore unico della società garantita; b) con un secondo motivo, la violazione dell'art. 1938 c.c., in relazione alla dedotta violazione del precetto normativo introdotto con la novella del 1992, in relazione alla esorbitante entità del limite massimo delle fideiussioni;
circostanza che avrebbe comportato, in relazione anche a quello che era l'importo dell'affidamento del debitore principale, la sostanziale elusione del precetto imponente la predeterminazione del tetto massimo della garanzia; c) con un terzo motivo, la fondatezza della domanda di risoluzione dei negozi, per violazione, da parte della banca, delle previsioni dell'art. 1956 c.c., e del principio di buona fede (osservavano i deducenti come, la banca avesse, nel luglio 1992, inopinatamente preteso un aumento delle garanzie che essi avevano già in precedenza prestato, e come tale richiesta non potesse trovare ragione giustificativa che nella conoscenza - da parte dell'istituto - di un cambiamento peggiorativo delle condizioni economi che del soggetto garantito, elemento che avrebbe dovuto indurre l'istituto a non accordare al medesimo ulteriore credito).
Gli appellanti - sottolineato come ciò fosse tanto più significativo, ove si fosse considerato che la banca aveva fatto sottoscrivere ad essi garanti una clausola di deroga alle previsioni dell'art. 1956 c.c., (e così di dispensa dall'obbligo di ottenimento della speciale autorizzazione del fideiussore), e ciò per far credito al soggetto debitore, nonostante l'intervenuto peggioramento delle condizioni di costui, e, con ciò, approfittando scientemente della condizione di soggezione psicologica di essi garanti - censuravano, con un ulteriore e distinto motivo, il profilo della pronunzia attinente agli interessi praticati, con riferimento alla mancanza di previa specificazione del tasso di interesse debitore e alla sua usurarietà, ed, in proposito, riproponevano la questione di legittimità costituzionale della D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, art. 1, (convertito nella L. 28 febbraio 2001, n. 24), per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui consente il mantenimento di tassi di interesse oggettivamente usurari in base al criterio stabilito dalla L. n. 108 del 1996, anche dopo la entrata in vigore di tale ultima legge, allorquando essi fossero stati pattuiti nel vigore della legge previgente.
Resisteva la Cassa.
La Corte, con sentenza del 23 luglio 2004, rigettava l'appello sottolineando come: a) non potesse trovare accoglimento la questione della dedotta inefficacia delle clausole inserite nei contratti di fidejussione inter partes, sotto il profilo dell'asserito contrasto con le previsioni della disciplina dei "contratti del consumatore", e ciò in quanto - siccome rilevato da una recente pronunzia della Suprema Corte, occorreva affrontare il problema dell'ambito "oggettivo" e "soggettivo" di applicazione della nuova disciplina; b) più in particolare, sotto il primo profilo, dovendosi dare applicazione alle previsioni dell'art. 1469 bis c..c, nella formulazione originaria antecedente alla entrata in vigore della L. 21 dicembre 1999, n. 526, art. 25, comma 1, (che aveva soppresso la espressa qualificazione dei "contratti del consumatore" come contratti aventi ad oggetto la cessione di beni o servizi), il problema relativo al se il contratto di fidejussione rientri o meno nell'ambito di applicazione dell'art. 1469 bis c.c., (e cioè nei contratti coi quali un " professionista" ceda beni o fornisca servizi ad un "consumatore"), dovesse trovare una risposta di massima di tipo affermativo, andando evidenziato come il contratto di fidejussione, pur non attuando - in sè considerato - nè la cessione di beni, nè la erogazione di servizi, sia collegato funzionalmente al contratto di concessione di credito al debitore principale, che ha natura di prestazione di servizio e, come tale, rientri nell'ambito oggettivo dei contratti sottoposti alla applicazione delle previsioni dell'art. 1469 bis c.c. e ss., anche nella formulazione il antecedente alla riforma della L. n. 526 del 1999; b) quanto, peraltro, all'ulteriore requisito "soggettivo" di applicabilità della disciplina (che andava risolto previa individuazione del soggetto che deve presentare le caratteristiche di "consumatore", ovvero dopo aver accertato se detta qualità debba essere rivestita dal fidejussore, dal debitore principale o da ambedue), dovendosi concludere - conformemente ad autorevole dottrina e giurisprudenza di legittimità - nel senso che la natura anche soggettiva del debitore principale attragga quella del fidejussore, e che conseguentemente la disciplina dei "contratti del consumatore" debba trovare applicazione anche al contratto di fidejussione che acceda ad un contratto principale concluso con un soggetto che rivesta una condizione soggettiva di "Consumatore", nella specie, il "debitore principale" fosse una società di capitali (perciò, imprenditore professionale), e pertanto dovesse concludersi che, ai contratti di garanzia conclusi con coloro che per la stessa avevano prestato garanzia, non potessero venire applicate le previsioni delle norme previste dall'art. 1469 bis c.c. e ss.; c) quanto poi al secondo motivo (afferente alla pretesa violazione, ad opera della Banca, delle previsioni dell'art. 1938 c.c.), la decisione del primo Giudice fosse corretta e da confermare, giacchè la stessa non prestava il fianco alle censure che le erano state mosse, posto che l'art. 1938 c.c., stabilisce che la fidejussione può essere prestata anche per obbligazioni future o condizionali, purchè con la previsione di un importo massimo garantito (nella fattispecie in esame, tale delimitazione era stata prevista, anche se, secondo gli impugnanti, con una quantificazione "così elevata, da essere sostanzialmente elusiva del precetto normativo introdotto con la novella del 1992"), e posto che - premesso come la disposizione introdotta con la novella n. 154 del 1992, nel prevedere la necessità di predeterminare la misura massima dell'importo garantito per le fidejussioni condizionali o future (c.d. "omnibus"), non abbia comportato la necessità di ragguagliare, con un rapporto di proporzionalità necessaria (come sembravano ritenere gli impugnanti) la misura massima della garanzia, alla situazione debitoria del soggetto garantito, o di promuoverne in qualche modo il collegamento, bensì di predeterminare la misura massima della obbligazione del garante (superata la quale, l'istituto di credito non avrebbe comunque potuto aggredirne il patrimonio, a prescindere dalla entità della esposizione del debitore garantito) - si rendesse del tutto irrilevante il profilo della pretesa "sproporzione" del tetto della garanzia rispetto a quella che era la esposizione della Ored al momento della stipula delle fidejussioni, giacchè nè la lettera nè lo spirito della norma parevano volti a tutelare la esigenza di attuare detta proporzionalità; d) in ogni caso, fosse poi da rilevare come, se - in fatto - la Ored s.r.l. era affidata per l'importo di L. 880.000.000 al momento della concessione delle garanzie de quibus, e se era vero che l'istituto di credito volesse e dovesse cautelarsi contro il rischio (tutt'altro che inconsistente) di trovarsi di fronte una controparte insolvente e di non vedere soddisfatte le proprie ragioni o di non vederle soddisfatte se non con notevole ritardo o per nulla, non sembrasse comunque indice di un comportamento contrario a buona fede l'avere fissato il tetto massimo della garanzia in un importo complessivamente superiore del 50% alla entità della esposizione del debitore principale, considerata la entità degli interessi pattuiti e così la rapida crescita del debito garantito per gli accessori; c) quanto poi alla dedotta violazione dell'art. 1956 c.c., e del principio di buona fede contrattuale, l'assunto degli impugnanti - correttamente respinto dal Tribunale - fosse rimasto privo di qualsivoglia riscontro, posto che la sottoscrizione della clausola derogativa delle previsioni dell'art. 1956 c.c., in sè e per sè, non poteva esser letta nella chiave che gli impugnanti sostenevano, in difetto di ulteriori e più consistenti elementi di presunzione, considerato: 1) che la dispensa in questione era in sè ammissibile; 2) che essa compare con una certa frequenza nelle previsioni dei negozi fideiussori; 3) che il fallimento della Ored era intervenuto solo quattro anni più tardi, sì che neppure poteva sostenersi che lo stato della società fosse di evidente ed attuale decozione al momento del rilascio delle garanzie; f) quanto poi allo stato di asserita soggezione psicologica nei confronti della controparte forte sotto il profilo economico e cosi negoziale, si trattasse di una circostanza che - in difetto di prove a sostegno di comportamenti o condizioni idonee ad influire sul processo formativo della volontà dei soggetti garanti - non sembrasse spiegare alcun rilievo ai fini del decidere, considerato anche che nessuna domanda specificamente finalizzata ad impugnare i negozi costitutivi delle garanzie sotto il profilo del vizio nella formazione della volontà era stata proposta; g) quanto poi alle questioni afferenti alla dedotta nullità delle pattuizioni relative agli interessi, sotto il duplice profilo della loro indeterminatezza e della illiceità per violazione dell'art. 1815 c.c., andasse osservato come - quanto al primo profilo - gli appellanti avessero sostenuto che fosse nulla la previsione del tasso debitore con riferimento e richiamo a quello applicato al contratto principale, giacchè la loro partecipazione, quali soci, alla Ored s.r.l. non avrebbe potuto ritenersi circostanza idonea ad assicurare la loro conoscenza delle vicende sociali, e - nell'ambito delle stesse - specificatamente, dei tassi di interesse via via praticati con i contratti di concessione del credito da parte dell'istituto, nè - secondo gli impugnanti il primo Giudice avesse chiarito, come e in qual misura, la pubblicazione dei tassi in O.U. potesse ritenersi circostanza idonea a soddisfare la esigenza di conoscenza o conoscibilità di detti tassi; h) anche, tuttavia, sotto detto profilo, le doglianze di parte appellante fossero infondate, posto che: 1) la indicazione iniziale del tasso debitore della fidejussione, eseguita per relationem al tasso applicato al debitore principale, dovesse ritenersi esaustiva dell'obbligo di informazione a carico dell'istituto nel momento iniziale del rapporto, atteso che essa consentiva - con l'uso della normale diligenza da parte del garante - di individuarne con chiarezza la entità, mediante trasposizione del dato numerico relativo al contratto principale, al quale i garanti non potevano non avere accesso, considerata la loro partecipazione alla compagine sociale, e tenute presenti altresì la natura della società (s.r.l.) e le sue dimensioni assai ridotte sotto il profilo partecipativo; 2) per quanto atteneva poi al contratto principale, l'istituto avesse proceduto a norma del quarto comma del D.M. Tesoro 24 aprile 1992, art. 6, attuativo della L. n. 154 del 1992, inviando al contraente il testo delle condizioni praticate, mentre le successive variazioni erano state rese note mediante pubblicazione in G.U. (non essendo il contratto di fidejussione ricompreso nel novero dei contratti per i quali era espressamente previsto obbligo di detto adempimento, agli opponenti non era stata inviata alcuna personale e diretta comunicazione); 3) peraltro questi ultimi, avendo approvato espressamente per iscritto la clausola che imponeva loro di tenersi aggiornati sulle condizioni del debitore principale, si fossero espressamente obbligati ad acquisire in proposito le dovute informazioni, che - tra l'altro - erano agevolmente ricavabili dalla lettura dei documenti sociali, ai quali potevano avere accesso; 4) andasse oltretutto osservato come il rapporto di garanzia fosse andato avanti e avesse avuto svolgimento per anni, senza che su detta circostanza i garanti avessero avuto a muovere osservazioni di sorta; i) quanto poi alla entità della misura degli interessi, andasse rilevato come: 1) la data della loro determinazione fosse antecedente alla entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, e alla prima rilevazione dei tassi soglia, pubblicati in O.U. 76 del 2/4/1997; 2) la L. n. 24 del 2001, art. 1, interpretando autenticamente la L. n. 108 del 1996, succitata, avesse specificato come si intendano usurari quegli interessi che superino il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono stati pattuiti, indipendentemente dal superamento o meno della " soglia" al momento del loro pagamento; 1) da ciò conseguisse che, poichè i contratti di garanzia inter partes erano stati stipulati in data antecedente alla entrata in vigore della norma in questione, non potesse porsi la questione della asserita usurarietà dei medesimi, e - quanto alla osservazione degli appellanti, secondo cui dette disposizioni apparissero contrarie al precetto costituzionale degli artt. 3 e 24 Cost., giacchè attuavano una ingiustificata disparità di trattamento (e violavano correlativamente il diritto di difesa) di coloro che avessero pattuito, prima della entrata in vigore della legge in parola, tassi di interesse che erano divenuti superiori al tasso soglia - la questione fosse già stata sottoposta al vaglio del Giudice delle leggi, che l'aveva respinta affermando: 1) che la ratio della L. n. 108 del 1996, fosse quella di reprimere nel modo più incisivo il fenomeno usurario; 2) che siffatta finalità fosse perseguita, da un lato rendendo più agevole il perseguimento del reato, dall'altro individuando il tasso oggettivamente usurario e trasformando l'approfittamento dello stato di bisogno - elemento di difficile accertamento - da elemento costitutivo del reato a circostanza aggravante, nonchè inasprendo le sanzioni previste per detta figura delittuosa; 3) che la legge in parola fosse stata dettata nell'esclusivo intento di reprimere una specifica fattispecie criminosa.
Avverso questa sentenza propongono ricorso per cassazione, sulla base di 5 motivi assistiti da memoria, A.L., F.A., A.A., e AM.An..
Resiste, con controricorso, la CASSA DI RISPARMIO DELLA SPEZIA.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1^ motivo, nel denunciare VIOLAZIONE DELL'ART. 1469 Bis c.c., MOTIVAZIONE INSUFFICIENTE, i ricorrenti lamentano come: a) la Corte di appello abbia errato nell'escludere la qualità di "consumatore" di essi fideiussori F.A. ed An. ed A.A. sul semplice presupposto che la fideiussione accedesse ad un contratto di credito stipulato da una società commerciale e, dunque, sicuramente "professionista" ai sensi dell'art. 1469 bis c.c.; b) il requisito soggettivo del fideiussore ("consumatore" ovvero "professionista"), non possa automaticamente desumersi sulla base della qualità del debitore garantito, se non a rischio di gravi incongruenze quale quella di qualificare "consumatore" nel senso citato la società assicurativa che garantisca con fideiussione (assicurativa) il contratto stipulato da un soggetto sicuramente "consumatore"; c) sembrerebbe dunque più corretto valutare la sussistenza del requisito soggettivo del fideiussore ("consumatore" ovvero "professionista") sulla base di concrete risultanze processuali e non di automatismi (non sarebbe privo di rilievo - ad un tal riguardo - il profilo per cui l'applicabilità della disciplina dei "contratti del consumatore" fosse stata da essi invocata solo con riferimento agli appellanti F.A. ed An. ed A.A., escluso A.L., proprio perchè quest'ultimo rivestiva la carica di amministratore unico della società garantita).
Il motivo non può trovare alcun accoglimento, nessun elemento argomentativo avendo i ricorrenti conferito al dibattito processuale, atto a superare il principio - già affermato da questa Corte e pienamente condiviso da questo Collegio (per tutte, vedi Cass. 10207/05), secondo cui "Sebbene la fideiussione non possa essere inclusa, di per sè, fra i contratti di cessione di beni o di prestazione di servizi intercorrenti tra un professionista ed un consumatore, previsti dall'art. 1469 bis c.c., nel testo anteriore alla L. 21 dicembre 1999, n. 526, tuttavia, anche nel vigore della precedente formulazione, per la fideiussione che accede a contratti bancari deve ritenersi sussistente il requisito oggettivo, per l'applicabilità della disciplina delle clausole abusive, introdotta dalla L. 6 febbraio 1996, n. 52, in ragione del collegamento contrattuale che intercorre tra il contratto costitutivo del debito principale garantito ed 11 contratto costitutivo dell'obbligazione fideiussoria. Quanto al requisito soggettivo di applicabilità della medesima disciplina, la qualità del debitore principale attrae quella del fideiussore ai fini della Individuazione del soggetto che deve rivestire la qualità di consumatore".
Non miglior esito merita il secondo motivo, con il quale, nel denunciare VIOLAZIONE DELL'ART. 1938 c.c., MOTIVAZIONE INSUFFICIENTE, i ricorrenti lamentano come: a) del tutto erroneamente, la Corte d'Appello abbia qualificato come legittimo ed immune da vizi il contratto di fideiussione in questione ritenendo che l'indicazione di un importo massimo garantito sproporzionato rispetto alle circostanze del caso non equivalga ad una sostanziale elusione e violazione della norma contenuta nell'art. 1938 c.c., come riformulata a seguito della novella del 1992; b) più in particolare, ai fini della risoluzione della questione nell'ottica del legislatore della novella del 1992 e nel quadro generale del sistema, sarebbe doveroso domandarsi se la nuova formulazione dell'art. 1938 c.c., si sia limitata ad indicare la presenza di un mero elemento "o formale" (come ritenuto dalla Corte di Appello) o non abbia invece prescritto la necessità di un elemento sostanziale del contratto, al che andrebbe data risposta secondo cui la rispondenza dei contratti di fideiussione c.d. omnibus alla prescrizione normativa (e dunque la legittimità della garanzia) debba, in effetti, essere accuratamente valutata nel merito, per verificare ed accertare che la indicazione di un importo limite sproporzionatamente elevato non si traduca, nella sostanza, in una limitazione solo apparente e, dunque, nella sostanziale elusione della norma; c) la sentenza impugnata sarebbe, in ogni caso, affetta da insufficiente motivazione sul - punto specifico, sollevato dagli appellanti, della rispondenza dell'importo massimo indicato, alle circostanze concrete del caso di specie, nella misura in cui la Corte di Appello si sarebbe limitata ad affermare che "non sembra" contraria a buona fede l'indicazione di un tetto complessivamente superiore al 50% dell'ammontare dell'esposizione del debitore principale, senza tuttavia dar conto, nella motivazione (nemmeno per escluderne la rilevanza), di tutte le circostanze concrete, soggettive ed oggettive, indicate dagli appellanti e documentalmente attestate in atti.
Più in particolare, i contenuti del motivo, già di per sè meramente suggestivi ed apodittici nel loro postulare - in diritto un non meglio precisato (e definito) rapporto di "proporzionalità necessaria" fra il limite dell'importo massimo garantito e non meglio qualificate "circostanze del caso", di cui non è traccia nella disposizione normativa, confermano ulteriormente un tal profilo di inammissibile genericità anche laddove si indirizzano a censurare la pronuncia della Corte territoriale sotto il profilo dell'ipotizzato vizio moti-vazionale (sintomatico - ad un tal riguardo - si rende l'evocazione di non meglio precisate "circostanze concrete, soggettive ed oggettive, indicate e documentalmente attestate in atti").
Parimenti inammissibile anche questa volta per sostanziale vaghezza e genericità dei profili sollevati - si rivela il terzo motivo, con il quale, nel denunciare INSUFFICIENTE MOTIVAZIONE - VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DELLA BUONA FEDE CONTRATTUALE (art. 1175 c.c.), i ricorrenti lamentano come la Corte di merito, nell'affermare - in relazione al terzo motivo di appello - la carenza di "qualsivoglia riscontro" ed il "difetto di ulteriori e più consistenti elementi", abbia fornito una motivazione solo apparente, laddove abbia mancato di prendere in esame in una valutazione complessiva, in relazione al caso di specie, tutte le circostanze specificamente evidenziate dagli appellanti (ad esempio, l'affermazione secondo cui la clausola, derogativa dell'art. 1956 c.c., è la sè ammissibile e compare con una certa frequenza nei negozi fideiussori" sarebbe, per se stessa, una affermazione solo generica).
Non dissimili considerazioni merita il quarto motivo, con il quale, nel denunciare VIOLAZIONE DELLA L. n. 154 del 1992, ART. 4, MOTIVAZIONE INSUFFICIENTE - VIOLAZIONE DELL'ART. 2697 c.c., i ricorrenti lamentano come: a) avendo essi, con il quarto motivo di appello, dedotto la illegittimità dei tassi d'interesse applicati dalla Cassa di Risparmio di La Spezia ai rapporti di credito garantiti dalle fideiussioni oggetto di causa, per violazione della L. n. 154 del 1992, art. 4, sotto un duplice profilo (a) i tassi non erano indicati nei contratti di fideiussione; b) i tassi non risultavano comunque indicati neanche nel contratto di credito garantito), la sentenza della Corte di Appello di Genova avrebbe rigettato i profili di impugnazione con motivazione errata ed insufficiente; b) più in particolare, in primo luogo, la sentenza impugnata avrebbe concretizzato un'inammissibile deroga al principio stabilito dalla L. n. 154 del 1992, art. 4, sulla base della natura soggettiva dei contraenti fideiussori (siccome i fideiussori erano soci del debitore principale - la s.r.l. O.R.E.D. - la conoscenza dei tassi praticati dalla banca a quest'ultimo doveva intendersi presunta dai fideiussori per relationem), ma l'argomento dovrebbe ritenersi evidentemente errato, posto che i soci di una società di capitale (tale era la società garantita, O.R.E.D. s.r.l.) non sono necessariamente coinvolti nella gestione della società e, dunque, non sono necessariamente al corrente delle obbligazioni assunte dalla società (l'eventuale conoscenza, da parte dei soci, delle obbligazioni contratte dalla società non potrebbe formare oggetto di presunzione ma, al contrario, dovrebbe essere oggetto di specifica prova); c) l'assunto della Corte d'Appello, peraltro, sarebbe tanto più errato in quanto era specifico motivo, di appello anche la mancata indicazione del tasso d'interesse applicato al contratto di credito garantito: la pubblicazione sulla G.U. a norma della L. n. 154 del 1992, art. 6, comma 2, andrebbe riferita alle variazioni generalizzate (In peius) della struttura dei tassi d'interesse e non alla loro originaria indicazione nel contratto di credito, avrebbe dunque errato la Corte di Appello nel ritenere adempiuto, da parte della Cassa di Risparmio della Spezia, l'obbligo di indicare il tasso d'interesse concretamente applicato al contratto di credito stipulato con la debitrice principale O.R.e.d. s.r.l., ai sensi della L. n. 154 del 1992, art. 4, comma 2; d) più in particolare ancora, si renderebbero del tutto evidenti gli errori commessi dalla Corte di merito laddove avrebbe affermato la correttezza dell'operato della banca sulla base del decreto ministeriale di attuazione della L. n. 154 del 1992, (D.M. 24 aprile 1992), nel punto in cui, all'art. 6 comma 4, impone alla banca il dovere di inviare il testo completo delle condizioni praticate, nei modi più opportuni e in relazione alla tipologia, dei contratti; in occasione del primo inoltro delle comunicazioni periodiche, e laddove avrebbe ritenuto che le successive variazioni fossero state correttamente rese note, dalla banca, mediante pubblicazione sulla G.U. a norma della L. n. 154 del 1992, art. 6, comma 2; e) più in particolare ancora: 1) in primo luogo, essa avrebbe omesso di dare conto - nella motivazione - a quale specifico documento si riferisse quando aveva assunto che la comunicazione in base al D.M. 24 aprile 1992, art. 6, comma 4, fosse stata effettivamente fatta dalla banca (la mancanza di tale comunicazione avrebbe costituito uno specifico motivo di appello, e, pertanto, se la Corte di Appello aveva ritenuto che tale comunicazione fosse stata fatta, non avrebbe potuto trascurare di indicare, in motivazione, il documento sulla base del quale aveva ritenuto assolto l'obbligo di comunicazione della banca; 2) la semplice indicazione normativa in base alla quale la banca avrebbe dovuto assolvere all'obbligo stabilito dalla L. n. 154 del 1992, non avrebbe esaurito, certo, l'onere di dare conto - in motivazione - di come fosse stato raggiunto il convincimento che quell'obbligo fosse in effetti stato rispettato dalla banca; f) la Corte di Appello sarebbe dunque incorsa nella violazione dell'art. 2697 c.c., ovvero avrebbe insufficientemente motivato la propria decisione, laddove avrebbe dato, per dimostrato e pacifico, un fatto specificatamente contestato da essi appellanti; g) inoltre, la Corte di Appello avrebbe errato nel considerare applicabile, alla fattispecie, la L. n. 154 del 1992, art. 6, comma 2, che, invece, si sarebbe riferito all'obbligo della banca di comunicazione delle "variazioni (in peius) generalizzate della struttura dei tassi" che, evidentemente, sarebbe cosa diversa dalla specifica variazione del tasso d'interesse in concreto applicato ad un singolo contratto di credito;i) occorrerebbe infine sottolineare come la motivazione della Corte di Appello sarebbe, in ogni caso, insufficiente perchè si riferirebbe, evidentemente, a comunicazioni eventualmente effettuate, dalla banca, al debitore principale, mentre avrebbe trascurato di considerare le omesse comunicazioni della banca nei confronti dei contraenti fideiussori, che era l'oggetto specifico dell'impugnazione in appello; 1) la motivazione della sentenza della Corte d'Appello sarebbe inoltre manifestamente illogica laddove avrebbe indicato, nell'obbligo contrattualmente assunto dai fideiussori di tenersi aggiornati sulle condizioni economiche del debitore principale, il fondamento di un loro supposto onere di conoscenza dei tassi d'interessi applicati al contratto da loro garantito (sarebbe di tutta evidenza il diverso oggetto dell'obbligazione specificamente assunta dai fideiussori con la clausola indicata, attenendo - quest'ultima alle condizioni di solvibilità del debitore principale e non avendo nulla a che vedere con un supposto onere di conoscenza di specifiche condizioni contrattuali stipulate dalla società garantita).
Più in particolare, quanto al quarto motivo, i profili di inammissibilità attengono: 1) innanzitutto, all'evidente difetto di pertinenza dei profili sollevati in questa sede (e relativi ai contenuti del D.M. 24 aprile 1992, alla loro portata, ed alla incongruità del supposto riferimento operato - dalla Corte di Appello di Genova - ai cui adempimenti per ritenere assolta la indicazione - in sede di contratto di fideiussione - del tasso di interesse applicato al contratto di credito "garantito" con la fideiussione stessa), rispetto agli effettivi contenuti della sentenza, dai quali emerge l'assenza di qualsiasi riferimento del genere, ed emergendo invece come, ogni riferimento della corte territoriale agli adempimenti di cui al D.M. citato, abbia merito ai soli obblighi di comunicazione della Banca nei confronti del debitore principale, definito espressamente, dalla Corte territoriale, come unico destinatario e beneficiario degli obblighi in questione; 2) la dimensione oggettivamente fumosa delle doglianze, compromesse - nella loro linearità - dall'irrisolto oscillare, fra una - peraltro mai formulata - denuncia di violazione dell'art. 112 c.p.c., ed una incongrua prospettazione di un vizio di motivazione, dissimulante censure di mero fatto nei confronti delle conclusioni tratte, dalla Corte territoriale nel momento in cui - con percorso di per sè immune da vizi logico - giuridici - ha ritenuto la legittimità dei regime dei tassi di interesse applicato al rapporto.
Parimenti da rigettare si rivela, infine, il quinto motivo, con il quale, nel DENUNCIARE VIOLAZIONE DELL'ART. 1815 c.c., comma 2, i ricorrenti lamentano come: a) con riferimento all'ultimo motivo di impugnazione, la Corte di Appello di Genova si sarebbe limitata a prendere atto, passivamente, della pronuncia della Corte costituzionale n. 29 del 25 febbraio 2002; b) ogni pronuncia di rigetto della questione di illegittimità costituzionale non potrebbe, invece, non essere letta in relazione all'ordinanza di rimessione della questione, restando pur sempre possibile (e doveroso) sollevare altre questioni sulla medesima legge nella misura in cui siano fondate su rilievi diversi ed ulteriori non ancora sottoposti al vaglio della Corte costituzionale ( fra l'altro, sotto un altro profilo, andrebbe rilevato, inoltre, come la pronuncia di rigetto non realizzi un giudicato costituzionale, salva semmai la eventuale rilevanza delle motivazioni espresse dalla Corte costituzionale in punto di possibile interpretazione costituzionale della legge; c) non parrebbe, a questo proposito, fuor di luogo esaminare i termini della questione di incostituzionalità così come sviluppata nella sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 25 febbraio 2002, laddove, nel ritenere l'infondatezza della questione sollevata dal Tribunale di Benevento sotto il profilo della denunciata violazione dell'art. 3 Cost., la Corte costituzionale avrebbe anzitutto ritenuto di dover fare una premessa in ordine all'esistenza, in "giurisprudenza ed in dottrina di un dubbio (risolto con esiti interpretativi diversi) circa gli effetti, ai fini penali e civili, da riconnettere all'ipotesi in cui, nel corso del rapporto, il tasso soglia discenda al di sotto del tasso di interessi convenzionalmente originariamente pattuito", ed avrebbe, sulla base di tale premessa, ritenuto che "la norma denunciata trova giustificazione, sotto il profilo della ragionevolezza, nell'esistenza di tale obiettivo dubbio ermeneutico", con la conseguenza di ritenere che la norma in esame, "... nel precisare che le sanzioni penali e civili di cui all'art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma 2, trovano applicazione con riguardo alle sole ipotesi di pattuizioni originariamente usurarie, impone - tra le tante astrattamente possibili - un'interpretazione chiara e lineare delle suddette norme codicistiche, che non è soltanto pienamente compatibile con il tenore e la ratio della suddetta legge ma e altresì del tutto coerente con il generale principio di ragionevolezza"; d) dal complessivo esame della trattazione della questione, si potrebbero individuare due distinte fattispecie: 1) una sarebbe quella sulla base della quale sembrerebbe essere stata impostata la questione nella sentenza della Corte costituzionale (la fattispecie relativa ad un rapporto in cui fosse stato previsto un tasso originariamente "non usurario" perchè convenuto nei limiti del "tasso soglia" - trimestralmente Indicato, ma che successivamente, nel corso del rapporto, per la diminuzione del tasso trimestrale, sarebbe divenuto qualificabile come "usurario" in base al disposto della L. n. 108 del 1996, e, sotto questo profilo, dovrebbe convenirsi con la pronuncia della Corte costituzionale nel ritenere giustificato e ragionevole l'intervento del legislatore del 2001, nella parte in cui, di fronte alle crescenti ambiguità interpretative, ha ritenuto di precisare, con soluzione interpretativa "chiara e coerente con il generale principio di ragionevolezza", che, ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento); 2)tuttavia, esisterebbe un altro tipo di fattispecie (quale quella oggetto del presente giudizio), diversa da questa appena esaminata (la fattispecie in cui il rapporto, con la promessa o la pattuizione di interessi (anche moratori), sia iniziato in data antecedente alla vigenza della L. n. 108 del 1996); in questo caso, secondo i principi generali in materia di applicazione dello jus superveniens ai rapporti che si protraggano nel tempo - come questa Suprema Corte non avrebbe mai mancato di insegnare, con principi fatti propri anche da Corte cost. 17 giugno 1997 n. 204, cit., avendo la novella del 1996 introdotto una norma di manifesto carattere imperativo, pur fatta salva la validità del rapporto, la validità delle clausole di previsione di interessi in misura superiore a quella ritenuta legittima dalla legge non avrebbe dovuto comunque estendersi oltre la data di entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, con la conseguenza - del tutto ragionevole - dell'inserzione automatica del tasso di interesse conforme alla legge al momento della sua entrata in vigore (v. art. 1339 c.c.); e) questa soluzione interpretativa apparirebbe ragionevole e conforme ai principi e non sembrerebbe in contrasto con l'intervento del legislatore del 2001, così come la Corte costituzionale avrebbe avuto modo di chiarirne la portata nell'ultima sentenza citata, posto che, se sarebbe vero che, nel caso in cui il rapporto sia sorto successivamente alla vigenza della L. n. 108 del 1996, si sia in presenza di un tasso di interesse oggettivamente "non usurario", in quanto assunto in conformità alla legge e che sarebbe irragionevole considerare "usurario" (con le conseguenze giuridiche previste dalla legge sia in sede penale che in sede civile) ad ogni variazione in riduzione del tasso trimestrale di riferimento, sarebbe altrettanto vero che, nella diversa fattispecie in cui il rapporto sia già sorto alla data dell'entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, non possa egualmente affermarsi che si sìa in presenza di un tasso di interesse "oggettivamente non usurario perchè conforme ai limiti imposti dalla legge (tali limiti, infatti, non esistevano ancora) e che successivamente, per la modifica in riduzione di tali limiti, diventi irragionevolmente usurario"; f) ove si ritenesse che il D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, art. 1, (conv. in L. 28 febbraio 2001, n. 24) imponga un'interpretazione delle norme vigenti tale da consentire, in relazione ai rapporti sorti anteriormente all'entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, il mantenimento (e dunque la legittimità della pretesa) di interessi che siano oggettivamente "usurari" (in base alla norma sopravvenuta) e non invece la sostituzione del tasso convenzionale con quello "non usurario" stabilito con la prima determinazione normativa effettuata ai sensi della L. n. 108 del 1996, sarebbe compito dell'interprete - e massime di questo Supremo Collegio - ritenere che tale diversa interpretazione del D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, art. 1, (conv. in L. 28 febbraio 2001, n. 24) non corrisponda ai canoni di ragionevolezza che la stessa Corte costituzionale ha avuto modo di precisare, e che, pertanto, tale norma sia censurabile sotto il profilo della sua legittimità costituzionale per la violazione dell'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede o non consente di applicare automaticamente il primo tasso di interesse elaborato a norma della L. n. 108 del 1996, art. 1, ("tasso effettivo globale medio") ai rapporti in corso alla data di entrata in vigore della predetta legge o comunque alla data della prima rilevazione del suddetto tasso.
Il motivo non può trovare alcun accoglimento, in quanto - anche al di là della singolarità della pretesa, in sè, di scomporre i dettati di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 2002, offrendone una sorta di rilettura autentica affidata alla valorizzazione di singoli suoi segmenti - non riesce convincente nel momento in cui pretende di disegnare una differenza qualitativa ed ontologica fra la ipotesi in cui la pattuizione relativa al tasso di interessi risalga ad epoca antecedente all'entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, e acquisti - perciò - rilievo ipoteticamente "usurario" solo in virtù del nuovo regime normativo, e la ipotesi in cui l'originaria pattuizione del tasso di interesse risalga ad epoca successiva e, pur rientrando originariamente nei parametri, acquisti valenza ipoteticamente "usuraria" solo in seguito.
Dal rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti, in solido, alla refusione delle spese di questa fase in favore della controricorrente, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla refusione delle spese di questa fase, che liquida in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00, per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Suprema Corte di Cassazione, il 9 luglio 2008.
Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2008