REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI IVREA
Il Giudice, dott. Giuseppe MARRA, in funzione di Giudice Monocratico, ha
pronunciato la seguente:
SENTENZA
nella causa civile recante il n. 1472/04 di R.G. Cont., promossa da: T. L.,
elettivamente domiciliato in Cuorgnè, presso lo studio dell’avv. Monteu
Bottere, che lo rappresenta e difende per mandato in data 3 giugno 2004,
posto a margine dell’atto di citazione in appello,
- APPELLANTE -
contro
Studio Immobiliare B., elettivamente domiciliato in Ivrea, presso lo studio
degli avv.ti Rossetto e Bernardi, che lo rappresentano e difendono per
mandato in data 26 maggio 2003, posto a margine dell’atto di citazione
avanti il Giudice di pace,
- APPELLATO -
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione del 03/06/2004, il Sig. T. L. proponeva appello contro la sentenza n. 71/04 emessa dal Giudice di Pace di Ivrea in data 24/03/2004, chiedendone la riforma mediante rigetto di tutte le istanze avanzate in quella sede dallo Studio Immobiliare B. o, in subordine, mediante riduzione dell’importo dovuto a titolo di provvigione, da calcolarsi sul prezzo di vendita dell’immobile dichiarato a rogito, e citava controparte a comparire avanti al Tribunale di Ivrea all’udienza del 13/10/2004. In particolare i motivi di appello evidenziavano che: 1) la qualificazione giuridica del contratto rimaneva incerta; 2) il G.d.P. aveva errato nel condannare il T. al pagamento della provvigione, in quanto non era stato provato il nesso causale tra l’attività del mediatore e la successiva vendita dell’immobile da parte del T., a condizioni di prezzo del tutto diverse da quelle del contratto; 3) in ogni caso aveva errato il G.d.P. nel riconoscere la provvigione nella misura del 5% sul valore del terreno quantificato dal CTU, anziché sul prezzo di vendita (molto inferiore), risultante dall’atto notarile.
A tale prima udienza, lo Studio Immobiliare B. si costituiva in giudizio instando per il rigetto dell’appello proposto dal Sig. T. e formulando contestuale appello incidentale volto a far condannare l’appellante principale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, al pagamento, a titolo di penale per l’inadempimento del T. rispetto all’obbligazione di corrispondere all’agenzia immobiliare le giuste provvigioni, di una somma maggiore rispetto a quella enunciata in sentenza e calcolata sulla base dell’importo indicato nell’art. 9 lett. B) del contratto di mediazione.
Il G.I., verificata la regolarità del contraddittorio, dato atto della rinuncia delle parti all’esperimento del tentativo di conciliazione, rinviava la causa al 12/01/2005 per la precisazione delle conclusioni.
All’udienza del 12/01/2005, infatti, le parti precisavano le loro richieste ed il Giudice tratteneva la causa a decisione concedendo i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.
In sede di comparsa conclusionale l’appellante peraltro sollevava anche l’eccezione di inefficacia della clausola penale di cui all’art. 9 lett. B) del contratto, perché rientrante nell’ipotesi indicata dall’art. 1469 bis, n. 6 c.c. di clausola vessatoria in un contratto tra professionista e consumatore; nella memoria di replica la difesa dell’appellata, rilevava che tale eccezione era da considerare come una domanda nuova, mai sollevata prima di allora e che in ogni caso la clausola penale contenuta nell’art. 9 lett. B) non poteva essere qualificata come clausola vessatoria per il consumatore, perché prevedeva il pagamento a titolo di penale di un importo corrispondente alla provvigione concordata nell’art. 5 del contratto, importo che non poteva essere considerato “manifestamente eccessivo”, come richiesto invece espressamente dall’art. 1469 bis, n. 6 c.c. al fine di individuare la vessatorietà di una clausola.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’appello principale è infondato e va pertanto integralmente respinto, mentre l’appello incidentale deve trovare accoglimento per le ragioni che di seguito verranno esposte.
I fatti di causa possono ricostruirsi sinteticamente nei seguenti passaggi: in data 29/01/2002, l’appellato riceveva dal Sig. T. L. incarico di mediazione, di durata semestrale, per la vendita dell’immobile di sua proprietà sito in Alice Superiore, con specifica indicazione sia del prezzo di vendita richiesto dal Tasso, pari a £ 63.000.000 (€ 32.846,66), sia della provvigione da riconoscere allo Studio Immobiliare B., stabilita nella misura fissa del 5% (oltre I.V.A.) da calcolarsi sull’importo di £ 60.000.000 (€ 30.987,41), anziché sul diverso e maggiore prezzo di vendita fissato.
Alla scadenza del semestre il mediatore restituì la documentazione dell’immobile al T., fornendo anche un elenco delle persone che avevano visionato il terreno e mostrato interesse al suo acquisto, con i relativi recapiti. Non vi fu alcun recesso anticipato da parte dell’appellato, come insinuato dalla controparte, ma semplicemente conclusione del contratto per sua naturale scadenza.
Tra queste persone contattate dal mediatore e di cui venne data indicazione al T. vi erano anche i futuri acquirenti dell’immobile di quest’ultimo, i sig.ri T. – S., i quali in data 19.11.2002 stipularono il rogito notarile di compravendita, quindi a distanza di pochi mesi dallo scadere del termine del contratto di mediazione (29.07.2002), acquistando oltre all’immobile del T. L. anche quello confinante, di proprietà di T. C. cugina dell’appellante. Va altresì evidenziato che nella comunicazione dell’agenzia immobiliare al T., con l’elenco dei nominativi e dei recapiti della persone contattate dallo Studio B., si precisava anche che i sig.ri T. – S. erano interessati all’affare, solo se avessero potuto acquistare anche l’immobile limitrofo, quello di T. C., come poi effettivamente avvenne.
Successivamente lo studio B., avuta notizia della vendita avvenuta a sua insaputa, invio in data 12.03.2003, una lettera al T. invitandolo a pagare le provvigioni concordate (con allegata fattura), facendo presente che la vendita era avvenuta con persone in precedenza contattate dall’agenzia immobiliare (vedasi doc. 6 di parte attrice in primo grado); la lettera però non ebbe riscontro dando luogo al presente contenzioso iniziato dallo Studio B.
Quanto alla qualificazione giuridica del contratto, messa in dubbio dall’appellante, il quale
suggerisce la possibilità configurare il negozio tra le parti come mandato a vendere, anziché
mediazione, si ritiene che correttamente il Giudice di Pace in sentenza ha valutato la natura del contratto concluso, in base ai principi interpretativi indicati dal codice in materia contrattuale; infatti, il G.d.P. chiarisce che il contratto in questione è da configurare legittimamente “come contratto di mediazione […] anche, e soprattutto, perché vi compaiono elementi sostanziali secondo i quali la volontà in esso manifestata dal T. L. era soltanto quella di cercare sul mercato dei possibili acquirenti dei suoi immobili posti in vendita e la volontà dell’Immobiliare era quella di procurare al T. L. un acquirente per gli immobili medesimi” e conferma che, tra gli incarichi affidati all’agenzia, “vi sono quelli di impegnare la sua organizzazione per promuovere la vendita e non per eseguirla”; posto che la peculiarità qualificante il contratto di mandato è esattamente l’obbligo che una parte pone a suo carico “di compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra” (art. 1703 c.c.), è evidente che nel caso di specie nulla di tutto ciò è avvenuto, visto che l’Immobiliare B. non ha mai compiuto qualsivoglia atto giuridico in nome e per conto del venditore.
Inoltre, secondo costante giurisprudenza (ex multis Cass. 10/11/2002, n. 14637; Cass. 15/05/2002, n. 7067), ai fini della configurazione del contratto di “mandato” occorre il conferimento, da parte del mandante e per iscritto, di apposita procura a vendere l’immobile: nella fattispecie, nessuna procura è stata trasmessa all’agenzia da parte del Sig. T.; in senso contrario può evidenziarsi che una delle caratteristiche precipue della “mediazione” consiste nell’obbligo di imparzialità del mediatore rispetto alle parti coinvolte nella conclusione dell’affare, ovvero l’assenza di qualsiasi legame di collaborazione, dipendenza o rappresentanza con alcuna delle parti: tale imparzialità,
come più volte ribadito, non si esaurisce per il solo fatto che l’incarico di mediazione venga
conferito da uno solo dei futuri contraenti anziché da entrambi, né comunque, nel caso de quo, si è mai dato prova dell’esistenza di un qualsivoglia rapporto di dipendenza tra lo Studio Immobiliare B. e il Sig. T.
Quanto al comportamento tenuto dalle parti in causa, come è chiaramente emerso durante il
giudizio di primo grado, lo Studio Immobiliare B. ha compiuto diligentemente tutta l’attività di sua competenza, dimostrando altresì correttezza e buona fede contrattuale per aver successivamente trasmesso al Sig. T. un elenco dei nominativi e relativi recapiti delle persone che, dopo aver visionato l’immobile, avevano mostrato interesse all’acquisto (ex multis, Cass. 11/04/2003, n. 5762; Cass., sez. III, 13/06/2002, n. 8437; Cass., sez. III, 08/03/2002, n. 3438).
Il comportamento tenuto dal Sig. T., non pare invece essersi uniformato ai criteri stabiliti dall’art. 1375 c.c. posto che il medesimo, dopo aver venduto autonomamente la sua proprietà successivamente alla scadenza dell’incarico di mediazione ad una delle persone segnalategli dall’Immobiliare, si è rifiutato di onorare il conseguente obbligo di corrispondere all’agenzia l’importo pattuito a titolo provvigionale, contravvenendo così all’impegno espressamente sancito dall’art. 9 lett. b) dell’incarico di mediazione (doc. 1 del fascicolo attoreo di primo grado), che prevede il pagamento di una penale, di importo pari a quello della provvigione pattuito, nel caso in cui l’immobile fosse stato venduto a persone indicate dal mediatore, anche fuori dal periodo di durata del contratto di mediazione. L’inadempimento contrattuale del Sig. T., pertanto, si è realizzato nel momento in cui il venditore medesimo ha alienato l’immobile a persone reperite e segnalate dallo Studio Immobiliare B. nella sua attività di mediazione, senza provvedere a saldare
all’agenzia quanto dovuto in base alle disposizioni contrattuali.
È indubbio che i contraenti abbiano inteso pattuire una apposita clausola rivolta ad spingere il venditore all’adempimento della sua obbligazione principale, ovverosia a corrispondere la provvigione dovuta e ad impedire che quest’ultima potesse essere artatamente elusa mediante vendita conclusa dopo la scadenza del mandato con acquirente reperito dallo stesso Studio Immobiliare, nonché a definire in anticipo l’importo dovuto a titolo di risarcimento in caso di inadempimento; e pare altrettanto indubbio, di conseguenza, il proposito di attribuire a tale clausola, contrariamente a quanto sostenuto dal T., un valore autonomo rispetto ai termini del contratto di compravendita poi stipulato e di sottoporla solamente alla condizione che il venditore, “anche dopo la cessazione dell’incarico”, abbia effettuato la vendita a persone segnalategli dall’agenzia. Si è di fronte senza dubbio ad una clausola penale (come peraltro indica espressamente l’art. 9 citato) ai sensi dell’art. 1382 c.c., apposta al fine di predeterminare in caso di inadempimento di una parte l’importo del risarcimento spettante alla controparte non inadempiente, a prescindere dalla prova del danno.
Del tutto privo di pregio è il motivo di appello che eccepisce il difetto di nesso causale tra l’attività di mediazione dello Studio B. ed il successivo contratto di compravendita, sul rilievo che il prezzo realizzato fu radicalmente diverso da quello invece pattuito con il mediatore. Infatti ci sono forti indizi, compiutamente indicati dal Giudice di Pace a cui si rimanda, per ritenere che il prezzo indicato nell’atto notarile non fosse il vero prezzo poi pattuito per vendita; in ogni caso il diritto al compenso del mediatore per la sua attività professionale, che è quella di mettere in contatto due soggetti e promuovere la conclusione di un affare, dipende esclusivamente dal fatto che l’affare si è poi concluso per effetto del suo intervento, e prescinde dalla scelta discrezionale del venditore, che nella fattispecie in un momento iniziale, con incarico al mediatore, voleva ottenere circa 60 milioni di lire ed a distanza di pochi mesi, conclusa la mediazione, avrebbe accettato inspiegabilmente di concludere la vendita ad un prezzo di soli 10.500 euro.
Di maggior rilievo è invece l’eccezione relativa alla presunta vessatorietà della clausola penale prevista dall’art. 9 lett. B) del contratto, che è il vero oggetto della causa, dato che in primo ed in secondo grado lo Studio B. ha sempre chiesto precisamente il pagamento della penale per inadempimento della controparte, e non già il pagamento delle provvigioni, anche se l’importo della prima corrisponde nel caso di specie all’entità delle seconde in forza dell’articolo citato.
Ritiene questo Giudice che la questione delle clausole vessatorie nei contratti tra professionista e consumatore, possa essere affrontata per la prima volta anche in grado di appello (non invece in sede di legittimità). Il codice sanziona tali clausole con l’inefficacia, ma non precisa quale è il vizio che dà origine a tale inefficacia. Secondo la miglior dottrina si è di fronte in realtà ad un’ipotesi di nullità delle clausole, che pacificamente può essere rilevata anche dal giudice ed anche in grado di appello, purché gli elementi di fatto siano già dedotti ed allegati dalle parti in primo grado (vedi Cass. 3892/69).
Quanto all’inquadramento generale va evidenziato che l’art. 1469 bis, 1° co., definisce vessatorie le clausole che «malgrado la buona fede determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto».
Questa norma, che fornisce una definizione in termini generali (c.d. clausola generale) della vessatorietà, va messa in relazione con quelle contenute nel 1° e 2° co. dell’art. 1469 ter che forniscono ulteriori elementi da prendere in considerazione al fine di stabilire cosa debba intendersi per clausola vessatoria.
Il 1° co. dell’art. 1469 ter così reca: «La vessatorietà di una clausola è valutata tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato da cui dipende».
Il 2° co. dispone che: «la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile». Sulla scorta di quest’ultima disposizione (che riprende il testo dell’art. 4, par. 2 della direttiva 93/13/CEE) è stata posta la distinzione tra uno «squilibrio economico», come tale giuridicamente irrilevante, ed uno «squilibrio normativo», rilevante invece ai fini dell’applicazione della disciplina, e consistente nel rapporto tra i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto.
Lo squilibrio economico è irrilevante proprio perché la legge (art. 1469 ter, 2° co.) non ammette un controllo sul sinallagma contrattuale, ossia sulla adeguatezza del prezzo o del corrispettivo ai beni o servizi che formano l’oggetto del contratto. Poiché l’art. 1469 bis, 1° co., specifica che lo squilibrio determinato dalla clausola inerisce al rapporto tra i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto, la relativa indagine non può limitarsi a stabilire se uno squilibrio dei diritti e degli obblighi si rinviene all’interno della singola regola pattizia considerata (clausola), bensì deve mirare a valutare qual è l’impatto della singola regola sull’equilibrio dell’intero regolamento contrattuale poiché può darsi sia il caso di una regola in sé squilibrata che trova una giustificazione e un bilanciamento alla luce del regolamento, che il caso di una regola in sé equilibrata che tuttavia comporta uno squilibrio nel regolamento.
Ad esempio nel caso dei contratti di assicurazione si afferma che le clausole di recesso dell’assicuratore in caso di sinistro non devono ritenersi al riparo dalla declaratoria di vessatorietà per la sola attribuzione del diritto di recesso anche al consumatore (c.d. clausola bilaterale), poiché è evidente che in caso di verificazione del sinistro (si pensi all’insorgere di una malattia nel caso di polizza sanitaria), il solo soggetto che ha un concreto interesse a recedere è la compagnia assicurativa, che teme il ripetersi di successivi sinistri oltre il primo (sempre utilizzando l’esempio delle polizze sanitarie, è evidente il rischio di recidivanze nella malattia).
Con specifico riferimento alla clausola penale de qua, vi è il n. 6 dell’art. 1469 bis c.c., che fa divieto al professionista, pena l’inefficacia, di “imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo”.
Ma prima di entrare nel merito in ordine alla contestata manifesta eccessività dell’importo indicato nella clausola penale, prevista in danno del consumatore T. ritenuto inadempiente, va evidenziato un dato di particolare importanza, ovvero che analoga clausola penale, dello stesso importo, è contemplata, sempre dall’art. 9 lett. B) del contratto, anche in danno del professionista Studio B., in caso di suo inadempimento, nelle ipotesi specificate “di recesso dall’incarico, prima della scadenza prevista; mancata comunicazione di una proposta di acquisto conforme al presente incarico raccolta dall’agenzia”.
Si potrebbe osservare subito che la norma invocata, ovvero il numero 6 dell’art. 1469 bis c.c., laddove sancisce la vessatorietà solo nell’ “…imporre al consumatore, in caso di inadempimento...”, sembra escludere tale valutazione di abusività nell’ipotesi in cui le clausole contrattuali impongano penali non solo a sfavore del consumatore, ma anche del professionista in caso di suo inadempimento (la c.d. reciprocità della clausola).
Tuttavia, tenuto conto che nella direttiva CEE 13/93, così come nella Proposta modificata della Commissione CEE del 4 marzo1992, non compare la limitazione dell’imposizione al solo consumatore, si ritiene che la sola argomentazione letterale non sia idonea ad interpretare correttamente la norma oggetto del presente giudizio.
Infatti se si tiene bene a mente che il compito della verifica giudiziaria introdotta con la legge n. 52/96, è incentrata sull’assicurare alle parti la medesima forza contrattuale, per ciò che concerne il profilo giuridico–regolamentare, si può condividere quanto afferma la dottrina più attenta, e cioè che di per sé la bilateralità della clausola penale non è prova incontrovertibile di equilibrio tra le parti nella regolamentazione dei rapporti negoziali.
Può accadere precisamente che la penale a carico del professionista preveda un importo equo e quella a carico del consumatore invece un importo manifestamente eccessivo, così riproducendo nella sostanza lo squilibrio normativo, solo dissimulato dalla reciprocità formale della previsione sanzionatoria.
La valutazione quindi non può essere astratta ma va operata caso per caso.
Nella fattispecie oggetto della presente causa, non può negarsi che la previsione della medesima penale, nei confronti di entrambi i contraenti per i loro rispettivi eventuali inadempimenti, pone le parti in una situazione di oggettivo equilibrio contrattuale.
Si deve perciò concludere affermando che la clausola penale invocata dallo Studio B., a fronte dell’inadempimento della controparte, non rientra nel novero delle clausole vessatorie.
Ad avviso di questo Tribunale, si perviene alla medesima conclusione anche affrontando la
problematica della natura della clausola, sotto il profilo della sua manifesta eccessività per il consumatore.
Infatti la funzione di una clausola penale è quella di predeterminare l’entità del risarcimento del danno, liberando il beneficiario dall’onere probatorio in ordine al danno stesso. Nel caso di specie ponendo l’equiparazione tra importo della mancata provvigione ed entità della penale, si può evidenziare che il beneficiario della clausola non ottiene, dal punto di vista quantitativo, nulla di più rispetto a quello che era di sua spettanza se l’altra parte avesse adempiuto all’obbligazione di pagargli la provvigione, di fatto non lucrando alcunché sull’inadempimento della controparte. Si può obiettare che il vero vantaggio della clausola penale non sta nella predeterminazione del risarcimento, ma piuttosto nell’esonero dalla prova di aver subito un danno di tale entità. Ma tale esonero è proprio l’essenza stessa della clausola penale, che secondo il codice civile non è di per sé abusiva, se non quando viene superato il limite della eccessiva e manifesta onerosità per il contraente debole; il che riporta il problema strettamente alla valutazione economica del quantum della penale, il cui importo nella fattispecie essendo di pari entità rispetto alla obbligazione principale non può ontologicamente essere considerato “manifestamente eccessivo” (cfr. Trib. Ivrea, Giudice Morlini, 11 luglio 2002, in Foro it., 2003, I, 1186; in senso contrario però: Pret. Bologna, 20 gennaio 1998, in Danno e resp., 1998, 270; Giud. Pace Sulmona, 24 giugno 1999, in
Giur. it., 2000, 2086; Trib. Milano, 29 marzo 2002, in Foro it., 2002, I, 2826).
L’appello è infondato anche nelle sue richieste subordinate, ovvero di ridurre l’importo dovuto dal T. a titolo di provvigione in misura pari al 5% del prezzo risultante in atto di compravendita, rogito notaio D’A., pari ad € 10.500. Infatti la domanda svolta dalla controparte in primo grado riguardava precisamente il pagamento della penale prevista dall’art. 9, quantificata in un importo pari a quello della provvigione, che le parti avevano determinato nell’art. 3 nella misura del 5% su 60.000.000 milioni di lire, a prescindere dall’effettivo prezzo di vendita dell’immobile (indicato nel contratto di mediazione nella maggior somma di lire 63.600.000), come risulta dal contratto originale esibito in primo grado all’udienza del 16 marzo 2004 avanti il G.d.P.
Nel caso di specie la volontà contrattuale delle parti appare chiara: esse avevano concordato che l’entità della provvigione e quindi indirettamente della eventuale penale in caso di inadempimento di una delle parti, fosse predeterminata nella misura del 5% su 60.000.000 milioni di lire, ritenendo implicitamente che quello fosse il prezzo minimo da ottenere dalla vendita, al di sotto del quale il venditore T. non avrebbe accettato eventuali offerte di acquisto. Tale previsione appare perciò di favore per l’appellato, poiché egli avrebbe potuto vendere anche ad un prezzo maggiore di lire 60 milioni di lire, ma in ogni caso sarebbe stato obbligato a pagare allo Studio B. una provvigione sempre calcolata solo sull’importo di lire 60 milioni.
Il fatto che poi il T. a distanza di pochi mesi avrebbe deciso di vendere ad una somma molto inferiore (circostanza come detto poco verosimile), in violazione peraltro del contratto con il mediatore che lo obbligava a pagare la provvigione concordata in precedenza se l’affare si fosse comunque concluso con una persona contattata dall’agenzia, non incide sulla pretesa dell’appellato, il quale è legittimato pienamente a far valere i diritti nascenti dalla clausola penale nei termini di cui sopra.
Tale ultima argomentazione consente di affermare che l’appello principale deve essere accolto, poiché il G.d.P. non ha correttamente interpretato il contratto, ed ha individuato l’entità della provvigione in base al presunto valore di mercato dell’immobile, stabilito in forza di una CTU.
Invece, come già detto, l’entità della penale, corrispondente alla provvigione concordata forfetariamente, va individuata nell’importo pari al 5% su 60.000.000 milioni di lire, come peraltro correttamente indicato nella fattura n. 12/A del 12/03/2003 dello Studio B.
La sentenza va perciò riformata in tal senso e T. L. viene condannato al pagamento in favore dello STUDIO IMMOBILIARE B. dell’importo di € 1.859,24, di cui alla fattura n. 12/A del 12/03/2003, oltre interessi legali di mora maturati dal 12/03/2003 sino all’effettivo soddisfo.
Le spese di giudizio di questo grado sono interamente a carico di parte appellante, in forza del principio della soccombenza, e si liquidano in complessivi € 2.000 per diritti, onorari e rimborso forfetario, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
il Tribunale, definitivamente pronunciando, respinta ogni altra domanda, istanza od eccezione
RIGETTA
L’appello principale promosso da T. L. contro Studio Immobiliare B., ed accoglie invece l’appello incidentale promosso dallo Studio Immobiliare B. e di conseguenza,
RIFORMA
parzialmente la sentenza del Giudice di Pace di Ivrea, dott. Luigi Contaldi, n. 71/04 del 24 marzo 2004,
e CONDANNA
T. L. al pagamento in favore dello STUDIO IMMOBILIARE B. dell’importo di € 1.859,24 di cui alla fattura n. 12/A del 12/03/2003, oltre interessi legali di mora maturati dal 12/03/2003 sino all’effettivo soddisfo.
CONDANNA
Altresì T. L. al pagamento in favore dello STUDIO IMMOBILIARE B. delle spese di lite del giudizio di appello che si liquidano in complessivi € 2.000 per diritti, onorari e rimborso forfetario, oltre accessori di legge.
Ivrea, lì 11 luglio 2005
Il Giudice
dott. Giuseppe MARRA
Depositato in Cancelleria l’11.7.2005